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Claudio Abbado. Armonia è prassi.

L’educazione musicale nel nostro Paese, sembra paradossale ribadirlo come per tante altre virtù artistiche delle quali possiamo fregiarci, confrontata con la sensibilità culturale che si incontra una volta varcati i confini nazionali, non versa in ottime condizioni. Che Claudio Abbado non abbia messo piede – a differenza di Giovanni Allevi – a Palazzo Madama, nonostante il conferimento della nomina di Senatore a vita, che non sia stato invitato a farlo per dirigere e “fare” musica comporta tutta una serie di riflessioni.

Ricordando Abbado, che purtroppo ci ha lasciato ieri dopo anni di lunga malattia ci piace concentrarci proprio su un aspetto della musica e dell’attività musicale spesso frainteso. Che la musica possa agire, essere pratica, seppure la più metafisica delle arti, che possa influenzare il modo di pensare e quindi cambiare le cose, fare politica tout court. La pratica musicale, oltre che una attività di pensiero per Abbado è stata sempre un’azione. Territoriale e temporale. Le tappe precoci e folgoranti della sua straordinaria carriera passata sui podi delle più grandi orchestre del mondo, il passaggio di testimone sia dei Wiener che dei Berliner Philarmoniker, hanno avuto modo di essere estensione di un fare rivoluzionario per i tempi. Un modo autentico di concepire l’azione musicale e di intuirne anche il suo potenziale terapeutico in termini di sconfitta di luoghi comuni.

A partire dal passatismo, da quel concetto di sala da concerto come sarcofago museale di antichi rimpianti e veri valori perduti per sempre. Abbado da questo punto di vista mostra la sua grande lezione, nel suo repertorio oltre che nel suo impegno. Un repertorio che legge e rilegge senza indulgenza il significato storico e le concause che hanno generato le grandi pagine del passato ma sopratutto un repertorio che ai suoi tempi, a ridosso dalle avanguardie del Novecento, continuava a ripercorrere la sua storia inseguendo numi tutelari più che riscoprendo percorsi umani e verità storiche. In questo modo il Novecento di Abbado, richiama le vicende della tradizione inquadrandole anche concettualmente in un’ottica rivoluzionaria.

Ciascuna avanguardia parte dalle retrovie. Il discorso vale allo stesso modo per gli epigoni della Scuola di Vienna (straordinaria la sua rilettura dell’opus di Alban Berg culminato nello straordinario Wozzeck con i Wiener) come per i tumultuosi anni afroamericani del Free Jazz. Storicizzare e attualizzare. Avvicinare il pubblico ai suoni della propria contemporaneità. Riducendo il gap, quello che negando evoluzione, suono dopo suono, riduce le pause e le timbriche contemporanee a rumore senza senso, a quella triste lettura tout court del “questa-non-è-musica”. Dalla dodecafonia di Schonberg alle sospensioni di Luigi Nono, il passo è breve. Si finisce presto per arrivare alle vacanze “intelligenti” di Alberto Sordi. Il sodalizio con Pollini in questo senso trascende la semplice affinità elettiva e di coppia, di cui resta memorabile traccia nelle registrazioni a ridosso di un’altra storica coppia. Quella costituita dal direttore Carlo Maria Giulini e dal pianista Arturo Benedetti Michelangeli. Pollini come Abbado condivide questa necessità impellente. Quella di far comprendere come, anche con la musica,  sia necessario “sporcarsi” le mani, come i suoni portino con sé una ragione pratica oltre che intellettuale. In che modo questi suoni possano tradursi in azione non solo emozionale ma anche pratica, essere materia e critica. Determinando il reale non solo rappresentandolo.

Un processo di trasformazione che, attraverso il potere dei suoni,  ha sempre inseguito, una ricerca che ha sempre portato avanti. Scomodi entrambi, Abbado e Pollini, alle logiche di un’ industria culturale piacevolmente accomodante nel predisporre conferme piuttosto che instillare dubbi. Nel leggere il valore assoluto solo nel passato e poco nel presente. Pollini dal canto suo, negli anni ’80 sfida la Deutsche Grammophon e impone che almeno un disco su quattro, per contratto sia di musica contemporanea. Chi ha potere contrattuale che lo eserciti a fin di bene, sembra suggerire. Insieme ad Abbado, testimone Umberto Eco, Pollini interrompe il concerto per un minuto di silenzio (che anche Cage avrebbe apprezzato!) in piena guerra del Vietnam. Dimostrando come il suono e anche la sua assenza possano concretamente agire, prendere una posizione, denunciare oltre che illuminare i propri percorsi spirituali d’ascolto. La musica è pensiero (gli esperimenti del LIM di Milano mostrano chiaramente che l’ascolto della musica sia in grado di influenzare direttamente la nostra attività cerebrale) e indubbiamente dall’assenza di pensiero al sul cosa sia preferibile che la gente pensi e come pensi fa parte di quella rincorsa ai bassi istinti, giustificata in termini di performance delle vendite, che determina, nelle regole del consumo, le conseguenze dell’immaginario. La responsabilità è enorme per chi la vive addosso e la indossa quotidianamente. In ricordo degli anni viennesi Abbado amava citare una differenza fondamentale tra i cittadini della capitale austriaca e noi italiani. In italia tutti sono buoni a indicare la formazione della prossima nazionale di calcio. A Vienna se fermi qualcuno per strada gli puoi tranquillamente chiedere –  e saprà indicartele… – le voci migliori per il quartetto del Rigoletto di Verdi in vista di un ipotetico allestimento. “E l’Italia giocava alle carte e parlava di calcio nei bar…”

Quanto ci sia di trasgressivo, quali valori e quale spirito critico possa insinuarsi nelle pagine dei grandi classici d’altronde è questione di passione personale. Seguire le indicazioni di queste letture alternative. Pensare che la stessa musica possa essere ascoltata diversamente da come la conosciamo è questione del ruolo che la società ad essa riserva. Un’altra lezione, sciamanica se vogliamo, che insieme a quella di Bernstein raggiunge, in opposizione all’algido e sacrale distacco di Von Karajan, e ricompone i nostri piani di ascolto. Riconoscere le influenze interculturali, il ribaltamento dei piani colto-popolare, il significato storico, rendere in tutto il suo pieno valore il significato del contemporaneo, contro ogni dietrologismo che fa di ogni evoluzione un passo successivo verso la degenerazione. Tanto indietro, tanto meglio. Scardinare queste abitudini percettive e questi condizionamenti culturali. Non è un caso che in questo modo la teoria possa diventare prassi e accondiscendere alle speranze venezuelane di chi come José Antonio Abreu, fondando El Sistema, ha mostrato come fosse possibile far imbracciare un violino invece che un arma da fuoco a chi nella miseria più estrema sembrava, nei barrios venezuelani, per forza di cose dover rinunciare ad alternative umane. Di questo spirito, sicuramente, Claudio Abbado ci ha lasciato in qualche modo orfani. Uno spirito concreto che dal podio scende in strada e si trasforma in richiamo verso un’adunanza gioiosa che restituisca l’uomo all’uomo attraverso il proprio suono e il significato più autentico della propria storia.

Luca Perini | Bake Agency

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