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Gone Girl. Al Festival “arriva” David Fincher

Ci sono sempre due versioni di una stessa storia. Esistono molteplici verità, frammenti, punti di vista. Quello che crediamo reale, il più delle volte, non lo è. Persino le vite più solide, nascondono nella penombra della lenta quotidianità crepe insanabili. Come in teatro, fingiamo di essere qualcun altro per piacere al pubblico, ai nostri amici, alla nostra famiglia, forse persino a noi stessi. Intrappolati dai nostri stessi desideri, dalle aspettative di un’eterna insoddisfazione, da una volontà zoppicante che si illude e mai si compie, fingiamo di essere, perché la verità è troppo faticosa da afferrare e trattenere.

Ma quando il velo della menzogna si squarcia, lasciandoci nudi con la nostra fiacca e noiosa identità non è mai una liberazione, non c’è luce nella scoperta. È invece un’esplosione disastrosa, un salto nel vuoto, è sangue (tanto), lacrime (finte). Sono vetri rotti, pezzi scombinati di un’esistenza da reinventare. Forse siamo solo una simulazione di ciò che dovremmo essere, uno spot esistenziale per non sentirci mediocri.

David Fincher, dopo pellicole straordinarie e disturbanti come “Seven”, “The Game”, “Fight Club”, firma un altro straordinario thriller, “Gone Girl”, adattamento dell’omonimo bestseller di Gillian Flynn che ne ha anche curato la sceneggiatura. Inizio, evoluzione e fine, al limite del tragicomico, di un matrimonio qualunque, in una cittadina americana qualunque, tra l’apatico Nick, interpretato da Ben Affleck, e la “bella e intelligente” Amy, la candida Rosamund Pike.

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Succedono cose terribili – dal paradiso di una nuvola di zucchero, passando per un tranquillo purgatorio borghese di tradimenti e frustrazioni fino all’inferno splatter di lenzuola zuppe di sangue – sappiamo bene, però, che niente di ciò che ci viene mostrato è reale, è solo un lembo di una verità più grande. Questo è Fincher. Ci distrae con la cura maniacale dei dettagli, con l’eleganza della messa in scena, con un umorismo sottile ma tagliante, ci indica una strada e poi, una volta percorsa, ci rivela che è sbagliata, dissemina indizi, apre e chiude porte fino a confondere il giudizio. Verso dove e su cosa dobbiamo rivolgere il nostro sguardo? È una caccia al tesoro snervante, in cui niente finisce davvero.

Proprio come in “The Game”, i personaggi si sfidano in una sorta di gioco di ruolo, mostrando quanto può essere fragile la consapevolezza di sé, l’immagine sapientemente costruita nel tempo di ciò che siamo, quanto tutto quello che definisce la nostra presenza agli occhi degli altri, possa ridursi al taglio di capelli, agli hobby, ai vestiti, ai gusti musicali o di cibo.

Ma è di più, è un dramma esistenziale in cui si racconta la complessità di una relazione ai tempi della crisi, il bisogno compulsivo di consumare e accumulare oggetti per riempire vuoti emotivi incolmabili – “le cose che possiedi, alla fine ti possiedono” diceva Tyler Durden in “Fight Club” –  il circo mediatico che con pericolosa superficialità ingoia e risputa vittime e colpevoli, burattini di uno show che da del “tu” a chiunque. E, infine, il bisogno di libertà, così pericoloso perché tenuto al guinzaglio delle buone maniere, delle regole, stritolato tra una colazione e un bicchiere di vino. Quel bisogno che diventa urgenza, follia, sociopatia. Una prigione, spaventosa perché invisibile per gli altri.

Sarebbe meglio svanire, morire o anche solo fingere di non esserci più. Forse non siamo mai stati davvero.

Chiara Ribaldo

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