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Opera o Lavoro, Crisi oppure Opportunità?

La nostra Repubblica, lo sanno tutti, è fondata sul lavoro, attività oggi molto carente e rara, almeno in alcune categorie privilegiate.
Molti dei nostri giovani, al termine di studi brillanti, fuggono all’estero. E pare che il lavoro lo trovino, anche con risultati economici e di gratificazione psicologica spesso brillanti. Naturalmente la cause che generano questo fenomeno sono molte, anche piuttosto complesse. Non è bene quindi semplificare troppo la questione, perché sarebbe scorretto e poco scientifico, ma un dubbio sorge: riguarda l’etimologia della parola lavoro che, forse (e sottolineo forse) un poco c’entra in tutto questo.

Lavoro deriva dal latino labor, ricavato (probabilmente) dal verbo labare, che indica “vacillare sotto un peso”, cosa che porta alla mente fatica e dolore. In Campania il lavoro si chiama, molto semplicemente, ‘a fatica.
Ma anche nella lingua francese, in quella spagnola, nel portoghese e nei dialetti meridionali, le parole travail, trabajo, trabalho, travaglio ci raccontano storie di sofferenza in quanto i termini derivano da uno strumento, il tripalium, formato da tre pali che reggevano, a seconda dei casi, le partorienti (il termine ancora attuale per i dolori del parto è infatti travaglio) oppure un reo che vi sarebbe stato legato per scontare le sue colpe, spesso commutate poi in lavori forzati.

Stando alle parole, il modo di concepire il lavoro è ben diverso in area anglosassone.

Il tedesco werk e l’inglese work risalgono, attraverso l’antico alto tedesco werk, all’indoeuropeo werg: la stessa radice da cui proviene, tramite il greco, organizzazione. Una radice che non ci parla di fatica e di dolore, ma invece di forza fisica, di energia, di frutti del lavoro.

Work e werk portano, dunque, nel loro codice genetico, l’idea di attività produttiva: lavorare è destinare capacità e strumenti alla creazione di ricchezza, che sarà a sua volta fonte di organizzazione e di nuovo lavoro.

Alle diverse parole corrisponde insomma una radicale differenza nell’atteggiamento e nell’etica. La tradizione cattolica mette in evidenza la condanna e l’espiazione. All’opposto work e werk ben esprimono la cultura protestante e puritana: lavorare significa partecipare all’edificazione del mondo.

Il lavoro è fede, missione, fonte di salvezza.

Viene da chiedersi: come mai vi è una tale differenza nelle etimologie di un termine che indica una attività comune? Forse è utile ricordare che nel 1200, nel nostro Paese, due parole lottavano per affermarsi: lavoro e opera.

Prevalse, come sappiamo, lavoro, con lo strascico linguistico che nell’area mediterranea parla, come si è visto, di fatica e sofferenza.
Il termine opera esprimeva l’idea di attività produttiva, idea che non poteva prevalere nel contesto culturale di allora, dominato dalla chiesa medievale.

Non è cambiato nulla? Vogliamo almeno sperare, anche senza modificare il termine (ormai talmente radicato da rendere l’impresa impossibile) che il concetto di opera si possa diffondere in modo che l’Italia non debba soccombere di fronte ai Paesi dove anziché di lavoro si parla di work e werk.
E, visto che ci siamo, perché non prendiamo atto del fatto che un altro concetto ha subito delle mutilazioni a causa di scorrette traduzioni? Si tratta del termine crisi, che, tratto dall’antico sanscrito, nella cultura dell’Estremo Oriente richiede l’uso di due ideogrammi, Wei e Ji, che significano rispettivamente Opportunità e Pericolo.

L’ideogramma cinese rappresentante la crisi.

A noi è giunto solo il secondo termine, per cui crisi per noi evoca qualcosa di pericoloso: si è perso per strada il concetto di opportunità.

Come afferma Margaret Mead, ci confrontiamo continuamente con grandi opportunità camuffate da problemi irrisolvibili.

Sono cose sulle quali forse conviene meditare.

Enrico Cogno

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