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PAROLE AL VENTO.
Street food

Street Food significa “cibo di strada”. Detto in Italiano suona un po’ dispregiativo. Quindi ben venga l’Inglese? Il fatto che in Italiano risulti sminuente, definire qualcosa come “di strada”, probabilmente ha molto a che fare con la percezione della contrapposizione strada-casa che, specie nei paesi mediterranei, è molto sbilanciata a favore della seconda. In effetti tra cibo di strada e cibo di casa, il confronto non si pone.

Eppure il cibo di strada appartiene a molte culture, non è necessariamente scialbo o insano; il fatto che sia in genere basato su ingredienti e su procedimenti semplici, anzi, fa sì che almeno in teoria non si tratti di roba da mangiare scadente. Semplicemente povera, o veloce, che tutti possono permettersi. Il pani ca’ meuza al porto di Palermo o il fish and chips londinese non sono male, a patto di non mangiarli tutti i giorni.
Ma se pensiamo a chi li vende, capiamo perché è meglio l’Inglese: un tempo la vendita di cibi già cotti per strada era appannaggio delle categorie sociali più svantaggiate, donne vedove, anziane, uomini che non potevano nemmeno permettersi un buco e una licenza, ai limiti della legalità e ai margini del contesto civile. Svolgevano l’umile servizio di sfamare chi – in una condizione simile o appena migliore – si trovava a passare nei paraggi, in cambio di un piccolo obolo per vivere.

Invece lo Street Food è roba da giovani, gente che a casa con pasta e fagioli si annoia. Viene venduto da ragazzi aitanti con il barbone alla moda e da ragazze ammiccanti che sprizzano bio da tutti i pori. Il cibo di strada differisce dallo street food perché quest’ultimo è molto più alla moda, è più sfizioso, costa molto di più. E mentre nascono già le prime catene dello street food, nemmeno il gusto di mangiare unto in solitudine resta intonso dall’orgia maleodorante del marketing.

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