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PAROLE AL VENTO.
Multiculturale

Quando si definisce un contesto multiculturale non lo si fa mai in modo innocente.
Quando una parola perde la sua innocenza, perdiamo un pezzo di realtà, ma imparando a maneggiarne la malizia, ne acquistiamo molti altri, ovviamente così incistati nell’asse paradigmatico del lemma, da essere nascosti.
Così, al posto di un senso ne troviamo vari e variamente contrapposti. La prima versione è quella politicamente corretta. E’ la prima perché è quella che si pretende neutra, che occhieggia subdolamente a una primigenia versione innocente: sottintende che un contesto multiculturale è di per sé più ricco e arricchente per chi è uso frequentarlo.
Questa definizione – che in questa accezione caratterizza scuole, librerie o eventi – come certe proposizioni della fisica teorica vale solo in contesti ideali.

Quando la situazione multiculturale, invece, non è costruita per valorizzare le differenze ma cresce spontanea per coincidente marginalizzazione di autoctoni e nuovi arrivati, la percezione della vicinanza include fastidio, senso di decadimento, spiazzamento, dovute al contatto con comportamenti ritenuti offensivi, immorali o pericolosi. Ce ne vorrebbero di tempo e prove, per superare l’impressione del primo contatto, spesso ipostatizzata nelle enormi difficoltà di comunicazione di chi parla lingue diverse.
Tutte le sensazioni, tranne l’arricchimento, a quanto pare.
Dalla pancia dell’esperienza del cosiddetto multiculturale, per lo più negativa, trae consenso la destra populista, che riempie le urne dei propri voti in vari Paesi europei. Il senso che si dà nella destra all’aggettivo è infatti dispregiativo: qui il sottinteso ci parla di perdita di identità, di abbassamento degli standard di vita, di una superiorità violata dalla convivenza con culture ritenute inferiori.

Multiculturale diventa così una parola equivoca e l’equivoco nasce dalla sua seconda parte, culturale: in generale nei contesti in cui si determina spontaneamente la presenza di persone che vengono da vari paesi, è fortemente probabile che nessuno di coloro che ne fanno parte sia portatore di altra cultura rispetto a quella già diffusa nelle periferie delle nostra città. L’integrazione culturale è già avvenuta sotto il segno dell’identificazione di sé tramite il consumo di merci.
E si tratta di merci standardizzate. Vogliono tutti, a quanto pare, qualunque sia l’origine, italiana, francese, brasiliana, russa o cinese, l’Iphone e la Golf.
Allora perché questo senso di straniamento, di perdita? Credo si tratti di perdita di sé, avvertita con dolore e fastidio nello specchio deformato dell’altro.

Le differenze di fondo sono minime, ormai. Infatti chi difende le identità culturali originarie si aggrappa nel caso dei nativi europei alla squadra di calcio, nel caso di chi l’occidente lo agogna e lo detesta da una lontananza che pare incolmabile, a terrificanti incrostazioni patriarcali, per fortuna al tramonto.
Chi parla di contesto multiculturale come arricchimento, invece, pensa ancora che siano diffuse nel mondo varie identità culturali, non omologate in modo radicale dall’avanzata del consumismo. In breve la parola multiculturale avrebbe senso solo se esistessero ancora significative culture d’origine. Ma nemmeno i nativi europei, tranne poche eccezioni, molto intellettuali, o forse intellettualistiche, ce l’hanno.
Eppure, almeno a sinistra, Pasolini dovrebbero averlo letto.

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