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Si lascia vedere piacevolmente l’ultimo film di Tornatore. È la storia di una relazione tra…
13 Ottobre 2017
A maggio, reduce dai fasti del vernissage, in un articolo su Just Baked (“La Biennale 2017: quella delle grandi mani”) avevo citato anche la ciclopica mostra di Damien Hirst, che occupa per intero gli spazi prestigiosissimi di palazzo Grassi e Punta della Dogana fino al 3 dicembre, salvo proroghe: Treasures from the Wreck of the Unbelievable (Tesori dal relitto dell’Incredibile). Probabilmente la più estesa personale a Venezia di un artista contemporaneo.
“Professore, non può cavarsela con un accenno; noi l’abbiamo vista la mostra e siamo perplessi. Per riassumere: grande artista o grande pataccaro?”: questa la provocazione di una coppia di ex studenti.
Forse se lo chiede lo stesso Damien, ma una cosa è certa: in epoca di fake news e bufale, lui è il campione di post-verità d’arte. Ma andiamo per ordine, anche a beneficio di chi della mostra e del suo amato-odiato autore sa poco o nulla.
E che questa storia sia affascinante, coinvolgente, spiazzante; che sia perfino doloroso non crederla vera!
La storia che s’inventa Hirst, cinquantaduenne inglese nato nell’effervescente città di Bristol, è di quelle che piacciono ai bambini e anche al bambino irriducibile che resta nascosto in ciascuno di noi: una storia che ha il gusto seducente di mito e di leggenda, di avventure di pirati e di corsari, di tesori sommersi, cercati per secoli e alla fine ritrovati. Come nelle belle favole.
È La storia di un liberto, Aulus Calidius Amotan, che non solo si è affrancato dalla sua condizione di schiavo ma accumula un patrimonio immenso di arte e di bellezza; tesoro poi naufragato con il vascello Απίστευτος (Incredibile) in fondo all’oceano, forse per una vendetta degli dei invidiosi. Succedeva alla fine del primo secolo dopo Cristo. E a lui Damien, probabile reincarnazione del liberto (mi sembra il minimo!), affrancatosi a sua volta dalla povertà e ora artista ricco e collezionista raffinato, è toccato il compito di recuperare quei tesori e offrirli alla fruizione dei suoi esterrefatti contemporanei. E lo fa con la perfezione formale di ogni reperto, con l’uso di materiali rari come la malachite, con la documentazione del recupero del tesoro: riprese subacquee spettacolari e una documentazione “scientifica”, fatta di disegni, modelli, reperti d’epoca affidati a uno stuolo di professionalissimi collaboratori.
“Io non ho capito se è una collezione vera o un’accozzaglia di robe rifatte!” sta confidando un signore, al secondo piano di Palazzo Grassi, alla sua disorientata compagna che reagisce con un salomonico ma incerto: “Mezzo e mezzo”.
Alcune statue sono di dimensioni colossali: il Demone con palla che ti accoglie all’interno è alto più di diciotto metri; il palazzo sembra essergli stato costruito intorno. Il gigante non è di bronzo, come sembrerebbe a prima vista, ma di resina dipinta con un effetto bronzo straordinario: cinquanta pezzi assemblati da sapienti artigiani in quattro mesi di lavoro.
E poi sculture di ogni dimensione: budda, sfingi, serpenti, draghi, scimmie, mostri vari, icone votive, monete, gioielli, utensili, armi, teschi, monili. E, all’improvviso, in mezzo a questo inventario fantastico delle più diverse antichità, realizzato a volte in marmi pregiati, pietre rare, oro, sofisticate fusioni in metalli preziosi oppure con resine e nuovi materiali, appare anche… Pippo. Sì, Pippo più stralunato che mai, ricoperto di conchiglie come pure il tenerissimo Baloo rivestito di spugne e coralli dai colori delicati. Mentre un video ci documenta il recupero del mito disneyano per eccellenza: Topolino! Anche lui adeguatamente conchigliato.
E a questo punto, di fronte all’evidenza che si tratta di un vero autentico tesoro falso, c’è chi…
Sì, di fronte a Pippo e Topolino recuperati dal fondo dell’oceano insieme al busto di un faraone o della bellissima dea babilonese Ishtar, e ricoperti delle stesse incrostazioni, è impossibile non prendere atto della colossale messa in scena.
Le reazioni sono varie e sorprendenti: chi s’incazza come un adulto credulone colto in fallo e la butta sull’ideologico (“in epoca di crisi, chi finanzia ‘ste boiate pazzesche?!?”), chi ride o s’intenerisce davanti a quel Baloo così sapientemente decorato di spugne e coralli, chi recita la parte dell’esperto d’arte contemporanea plaudendo all’artista che “interpreta lo spirito fraudolento e visionario insieme” dei nostri tempi, chi s’ammanta di cinismo sociologico: “se negli impegnati anni sessanta ammiravamo (e qualcuno comprava) merda d’artista, ora nell’era della superficialità e delle contaminazioni insensate ammiriamo (e qualcuno compra) costosissime raffinate patacche”.
Così il pubblico. E la critica? La critica ovviamente si divide e questo, aumentando la cassa di risonanza, non può che far felice il nostro Damien, al quale il mercato ha dato meno soddisfazioni negli ultimi anni: come saliranno meravigliosamente ora le quotazioni di ciascun pezzo! Insieme ai tesori dell’Incredibile, dal fondo dell’oceano risalirà, e vistosamente, anche la sua quotazione. “Hoc erat in votis!” avrebbe potuto commentato il liberto Amotan.
E sì, perché tutta questa, oggettivamente fantastica ed epica, messa in scena del recupero oceanico e la nobilitante collocazione veneziana sono destinate a supportate il successivo processo di vendita di ogni singolo pezzo. Le visite alle due mostre in “privata notturna”, o nei martedì di chiusura al pubblico, sono riservate ai grandi collezionisti che vanno a familiarizzare con l’oggetto, per loro raggiungibile, del desiderio.
E, inoltre, per quanto riguarda i possibili canali di vendita, basti ricordare che lo sponsor della mega galattica esposizione (5.000 mq!) è quel Francois Pinault che, oltre ad essere proprietario delle due prestigiose sedi veneziane, annovera nel suo vasto e variegato impero economico e finanziario anche la casa d’aste Christie’s.
“Da qualche parte tra menzogne e verità sta la verità” è scritto all’ingresso di Punta della Dogana. È questa la risposta preventiva di Hirst, oltre la quale non ci sono altre sue dichiarazioni ufficiali, al coro di entusiasmi, perplessità e polemiche suscitate da questa sua faraonica personale, strategicamente presentata come evento collaterale della Biennale d’arte 2017.
Se Damien Hirst sia uno dei più significativi artisti a cavallo del secondo e terzo millennio, o addirittura il più significativo, lasciamo che siano i posteri a dirlo, quando la prospettiva storica consentirà un giudizio al di fuori dell’effetto alone del sistema industriale dell’arte e dei rumori di fondo degli interessi economici in ballo.
Ma sicuramente è un grandissimo marketer, un caso esemplare di personal branding, un esperto di comunicazione tanto avaro di parole e interviste quanto accorto regista dei flussi comunicativi che alimentano il suo mito.
Non posso certo negare che Hirst sia autore di spiazzanti percorsi creativi, presentati sempre in eventi perfettamente costruiti sotto il profilo del marketing e della comunicazione; eventi che alla fine sono il vero episodio artistico che travalica le stesse opere esposte, come in questa mostra veneziana.
Mostra esagerata: splendidamente secondo alcuni, grottescamente secondo altri. Esagerata e basta secondo me. I personaggi dei cartoon ripescati insieme alle divinità indù o egiziane fanno sorridere e ci proiettano in una prospettiva storica da futuro lontano, il busto del liberto con le fattezze di Hirst è un’ammiccante strizzata d’occhio, poi il gioco protratto finisce per stancare: e nel combattimento impossibile tra l’Idra greca e la dea Kalì più che l’aspetto epico ironico colgo un sincretismo dozzinale.
Esagerata, ma mostra da non perdere se possibile: la curatrice Elena Geuna ha fatto uno straordinario lavoro e tiene bordone da consumata (attrice) professionista alla post-verità di Hirst della quale, nelle interviste, sollecita una fruizione senza pregiudizi.
Se la creatività troppo succulenta, il rimbalzo continuo tra finzione e realtà, tra passato e futuro, tra evidenza del falso e attraente credibilità del verosimile, insomma se questo verissimo tesoro falso darà anche a voi un senso improvviso e molesto di sazietà, di sbornia da eccessi, non preoccupatevi. Uscite e volgete lo sguardo altrove: siete a Venezia, l’antidoto è nell’armonia intorno.
Io l’ho fatto, salendo sulla terrazza del Fondaco dei Tedeschi a Rialto: la vista sul Canal Grande immerge subito nella confortante prospettiva della bellezza consolidata, alla quale tornare ogni volta che se ne sente il bisogno.
Sì, non ho mai amato Damien Hirst, ma ho sempre seguito con attenzione quello che fa. Lo reputo, anche e inevitabilmente, un perfetto prodotto del sistema industriale dell’arte e di quello della pubblicità con i quali ha vissuto in simbiosi: suo mentore, collezionista e gallerista è stato per molti anni Charles Saatchi che, con il fratello Maurice, ha costruito un impero pubblicitario ed è considerato un “reinventore” dell’arte e un creatore d’artisti. Sistema dell’arte che, a un certo punto, Damien è sembrato addirittura voler sfidare con la vendita diretta delle proprie opere; per poi tornare al meno rischioso rapporto di simbiosi.
Opere con le quali ha spesso riproposto in maniera spiazzante o addirittura brutale i temi più presenti ma anche più rimossi nell’immaginario collettivo, a cominciare dalla costanza della morte e della sofferenza nella nostra quotidianità: animali morti e spesso sezionati messi in formaldeide, la testa di vitello divorata dalle larve, il teschio umano rivestito di diamanti. Nella visione di Hirst c’è però anche un “be born again”: morire e rinascere, affondare e riemergere, perdere e ritrovare, plasmare contingenti raffinate menzogne per sollecitare l’individuazione di una diversa verità; come in questo colossale evento veneziano.
Alla fine, in questa mostra come nella vita, spetta a ciascuno di noi la responsabilità di decidere da cosa lasciarci sedurre, quale punto di vista accettare e a cosa voler credere.
Da questa soggettiva, diventa irrilevante che Hirst sia un grande artista o un magnifico pataccaro.
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