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HARIDASPUR.
Lungo la strada che porta a Calcutta

Photo by Gabby Orcutt on Unsplash

«Anche lo spazio della rete è uno spazio senza direzione. È un tessuto di possibilità di collegamento, di link, che non si differenziano essenzialmente l’uno dall’altro. Nessuna direzione, nessuna opzione ha la priorità assoluta sulle altre. Nella situazione ideale, in qualsiasi momento è possibile cambiare direzione. Nulla è definitivo. Tutto viene tenuto in sospeso. Nello spazio della rete non si procede passeggiando, camminando o marciando, bensì si naviga (to surf) o si esplora (to browse, originariamente, brucare o sfogliare). Queste forme di movimento non sono vincolate ad alcuna direzione, anzi non seguono neppure un cammino».

Per il filosofo Byung Chul Han (Il Profumo del Tempo, L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero 2017), lo spazio della rete è astorico e il tempo della rete è un tempo istantaneo, in cui si passa da un link a un altro perché indugiare anche solo più di un attimo genererebbe soltanto noia.

Con la lucidità dei grandi pensatori contemporanei, Byung descrive come verità e conoscenza siano solo apparenti nel dedalo di vicoli poco illuminato dei social, in quanto diluiti in una finestra temporale liquida, stretta ma al contempo iperaffollata, dove tutto ha la possibilità di essere adesso. Generando l’inebriante tanto quanto effimera sensazione di essere calati nel presente e di governare la propria vita istante per istante, il “doppio sogno” di Facebook, Instagram e loro simili ci ammalia e ci seduce, avvolge il nostro ego in un vortice di appagante centralità. Che ci piaccia o no, i social oggi possono tratteggiare un ritratto di ognuno di noi molto meglio delle persone a noi più vicine o del nostro analista precario. Se quell’algoritmo potesse generare una sequenza di bit assimilabile a un DNA digitale, ci potremmo guardare allo specchio con un po’ di biasimo ma con la consapevolezza che quella fame bulimica di produrre e di rincorrere il tempo che ci manca non fa altro che toglierci respiro, rendendoci protagonisti di un’epoca dell’affanno.

Edroado Calcutta
Edroado Calcutta su Facebook

Nelle ultime settimane l’appassionante dibattito sulla rete in Italia ha incontrato i suoi picchi nel rigurgito bipartisan sull’impatto sociale ed economico delle bustine del reparto ortofrutta a zerovirgolazerodue cent, scalfiti ma soltanto a intermittenza dalle preoccupazioni legate agli aumenti delle autostrade e all’odiato canone Rai che, implacabile, si impadronisce dell’anno che inizia come il cane quando fa della pallina da tennis la sua preda. Per fortuna siamo in grado di crearci le nostre comfort zone virtuali dove la parola d’ordine è autoreferenzialità e nelle quali non possiamo trovarci sorprese perché la scala sociale è conosciuta. L’appartenenza e la contrapposizione tra le fazioni sono le regole del gioco e gli unici sussulti che possono infastidirci sono tanto autentici quanto un incidente stradale in The Truman Show. Negli ambienti intellettuali e creativi, oggi sopraffatti e avviluppati intorno al loro vulnus di insanabile frustrazione, questo paradosso è portato quasi alle estreme conseguenze: negli ultimi giorni il variegato mondo dei “localari” e degli addetti ai lavori della comunicazione musicale (e in particolare del clubbing) ha scomodato le truppe cancellate per dibattere in modo acceso intorno a 2 grandi temi. La playlist di Calcutta commissionata dal Comune di Bologna e la sentenza di una causa tra due coniugi che ha obbligato uno a risarcire l’altro con un’ammenda, per non aver rimosso le foto del proprio figlio minore da un social media.

Due temi apparentemente distanti e indipendenti ma che hanno in comune quell’irrefrenabile voglia di dire “vedi che c’avevo ragione io” e poter finalmente ergerci a giudice, cadendo nella trappola dei social che ogni giorno ci affanniamo a stigmatizzare.

Se da una parte ad alcuni viene facile ricordare che la verità è figlia del tempo, dall’altro ci facciamo abbindolare da titoli artefatti per generare sensazionalismi immediati, nei quali cadiamo puntualmente in errore come farebbe un anziano raggirato dal venditore di enciclopedie porta a porta.

Edroado Calcutta
Edroado Calcutta su Facebook

E così un’operazione di marketing ben congegnata (e a un costo di certo non imbarazzante per un ente locale) ha consentito a un artista come Calcutta di far parlare di sé, di ribadire il principio sacrosanto per il quale se fai musica, anche se fai soltanto una playlist, devi essere pagato e di affermare una versatilità dei ruoli delle professioni della musica che ci fa comodo vedere a compartimenti stagni, dove il cantante può essere solo tale e di certo non può fare funzioni di DJ. I preconcetti e quel livore incancrenito alla base delle polemiche, a volte inutilmente appesantire da una frustrazione verbale disperata, non hanno fatto altro che certificare, invece, il dissesto culturale di una generazione, la mia, che ha fatto troppa gavetta e ora vuole bastonare, specie chi ce la fa o prova a fare il suo. Se invece che una playlist a Calcutta, messo sul patibolo per aver chiesto 5 mila euro, il Comune di Bologna avesse commissionato una cena a uno chef stellato per un cachet ben più elevato, probabilmente nessuno avrebbe storto il naso. Così come nessuno si scompone o perde tempo a indagare fonti serie per capire quanto costerà alle casse dissestate del Comune di Roma il presidio logistico e organizzativo necessario per consentire il megaconcerto di Roger Waters al Circo Massimo e la minestra riscaldata dei Pearl Jam all’Olimpico.

La considerazione, abbastanza ovvia, è che nessuno si sognerebbe di non pagare al ristorante, mentre per tutti è scontato non pagare per la musica, per i concerti, per andare in un club.

Una riflessione che può ben estendersi al tema delle foto dei minori, ignobilmente spacciato da chi non facendo nomi ma solo illazione pensa di prenderci per fessi, come una “multa” che finalmente colpirà tutti i loro “amici” virtuali, genitori e per di più affetti da narcisismo, che senza voler per forza cercare la vostra approvazione hanno deciso di mettere su famiglia e, udite udite, mettere al mondo dei figli. Ma come avranno fatto? Mah, chiediamocelo ogni tanto; anzi chiedetecelo, prima di giudicarci come ignobili e irresponsabili per la nostra smaccata ricerca di facili like. Anche noi padri (e madri) che ci nutriamo delle vostre stesse passioni, abbiamo fatto delle scelte: per esempio, rinunciare per un periodo o per sempre alle nostre ambizioni artistiche e creative per trovarci un lavoro che ci consentisse di avviare la nostra famiglia, di mettere in moto quel meccanismo che oggi a qualche anno di distanza ci consente di provare almeno a ritrovarlo quel respiro perduto tanto caro a Byun. Siamo fuori tempo massimo? Abbiamo sprecato la nostra opportunità? Applicarsi nel vostro campo da gioco come blogger appassionati, pur non avendo il certificato da DJ resident e il tesserino dell’ordine dei giornalisti, vi infastidisce perché a differenza vostra non dobbiamo rendere conto a nessuno?

Eppure, cari amici creativi, noi dobbiamo sorbirci tutti i giorni i vostri sfoghi quotidiani, le cavolate, le catene, le ripicche indirette, le insinuazioni malcelate verso quell’amico o collega che considerate infame o non meritevole del vostro rispetto. Quando non siamo costretti a sopportare i vostri sfoghi pseudo erotici da single trasgressivi che vivete la “notte”, tra aforismi, disegni ammiccanti e doppi sensi senza possibilità alcuna di invocare che il poliziotto di Facebook vi elevi il verbale che meritate per essere andati sfacciatamente alla ricerca di apprezzamenti “catchy”.

Photo by Gerome Viavant on Unsplash

Di più, quello che vi stupirà è che noi non siamo affatto alla ricerca di like facili perché la nostra vita e il nostro lavoro non dipende dall’immagine che diamo di noi e, di conseguenza, dalle regole dei social alle quali anche voi sottostate, ma dalla credibilità che ci siamo costruiti nel tempo, come professionisti negli ambiti dove mettiamo il nostro nome, e come genitori. E se vogliamo condividere l’affetto per i nostri figli mostrandovi delle foto, pur dovendo rispettare delle regole di buon senso, non riteniamo giusto essere messi alla berlina come nuova categoria (i genitori che violano la privacy dei loro figli minori) in base ad una presunta netiquette tutta ancora da dimostrare, declinata peraltro in modo sommario di chi dovrebbe riflettere quantomeno più di un istante prima di poter parlare di genitorialità. Senza contare che le “privacy setting” dei social ci permettono di poter vedere (non solo di poter scegliere a chi mostrare) soltanto quello che vogliamo, con buona pace di mamma e papà che sono andati alle altalene la domenica mattina e del principio della libertà in rete di cui vi riempite la bocca, ma tradite alla prima occasione utile. Se non ci vorrete seguire, ce ne faremo una ragione. Purtroppo nell’immaginario di chi è salito a pontificare nello speaker’s corner della cameretta ben curata da single artistoide, i nemici con i quali prendersela per le proprie frustrazioni sono enumerati e facili da cliccare proprio come i detestati Dash Button di Amazon Prime. Tra questi ultimi ci sono finiti stavolta Calcutta (santo subito) e i genitori che mettono on line le foto dei figli; un po’, se vogliamo, come i ragni e i visigoti…

Il cerchio si chiude: convinti di essere esperti comunicatori e padroni dei social media, i creativi della musica e del clubbing si divorano nell’uruboro della loro stessa frustrazione, in attesa del prossimo capro espiatorio della condizione che li accomuna pure nelle diversità e che oggi spesso non consente di vivere delle nostre passioni.

Un suggerimento per il prossimo colpevole qualora foste a corto di idee: Nicole Minetti ha suonato al party di Elrow in Uruguay ed è una tra le DJ più richieste e più pagate nei club delle Baleari. Siete pronti a stilare la lista dei requisiti dinastici e di nascita per essere considerato un DJ professionista?

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