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Seba Pezzani: dal Mississippi al Po

Benvenuto Seba, vorremmo iniziare chiedendoti qualcosa di te: il tuo background, dalla formazione alla passione per la musica e la letteratura…
Ho avuto la fortuna di nascere in una casa in cui i libri non sono mai mancati. Ricordo il giorno in cui, quando avevo sei anni, mio padre mi portò a casa gli albi di Asterix il legionario e Asterix e Cleopatra. E, da allora, ogni volta che usciva una nuova avventura, in casa mia arrivava sempre e io le ho imparate quasi tutte a memoria. Poi mio padre mi fece conoscere Sandokan di Emilio Salgari e, da lì in poi, ogni volta che finivo un libro e volevo leggerne un altro, chiedevo consiglio a lui.

Allo stesso tempo, in casa ho sempre sentito cantare e la musica lirica e quella leggera si fondevano con quella religiosa. E così è stato quasi automatico entrare nella corale della cattedrale di Fidenza, anche perché era un’ottima corale e distava cento metri da casa di mia nonna. Un’esperienza, comunque, che io presi con grandissima serietà.

Inoltre, ho fatto il liceo classico. Purtroppo, il mio background universitario invece è stato travagliato e strano, ma la voglia di creatività non è mai mancata. E ho quasi sempre scritto. Ho capito che avrei voluto fare anche lo scrittore, oltre che il cantante, quando ho iniziato a collaborare con una fanzine molto attiva, Music Club (fino a qualche anno fa è esistita, magari esiste ancora adesso), e poi con il Buscadero. Dopodiché, ho iniziato, una quindicina d’anni fa, a collaborare con Il Giornale e, qualche anno dopo, pure con L’Unità. Oggi continuo a scrivere per Il Giornale e con il portale Globalist. Quattordici anni fa, ho pubblicato il mio primo libro, Tuttifrutti, un fumettone senza disegni scritto a quattro mani con l’amico Luca Crovi.

Seba Pezzani è musicista, traduttore e scrittore. Come convivono insieme queste 3 anime e quale prevale sull’altra?
Io sono prima di tutto un musicista. Mi sento un musicista. Canto da quando sono nato e a otto anni ero già in una corale religiosa importante e ci sono rimasto fino ai 14 anni, quando sono stato folgorato sulla via di… Liverpool. Il paradosso è che, appena uscito dalla corale – e cantare in coro mi è sempre piaciuto tantissimo – ho iniziato ad appassionarmi alla musica rock, attraverso l’esperienza dei Beatles nei quali ho fatto un’immersione piena per cinque anni, iniziando peraltro a esplorare la musica da cui i Beatles erano venuti e quella che è nata dalle loro canzoni.

Non sono mai riuscito a combinare nulla di ufficiale nella musica, malgrado un paio di abboccamenti con grosse major una ventina d’anni fa, ma oggi ho lo stesso entusiasmo di quando avevo vent’anni. Tutto ciò che faccio al di fuori della musica è una specie di conseguenza, un corollario della passione principale, addirittura una necessità. È come se cercare creatività nelle cose che faccio a livello professionale colmi un vuoto. Ma devo dire che non è difficile far combinare le cose. In fondo, la lingua inglese l’ho imparata perché volevo cantare in inglese senza dare la sensazione di essere straniero. Il resto è venuto da sé.

Mi interessa il tuo ruolo di musicista all’interno di una band rock dalle radici americane, i RAB4. Com’è nata l’idea di formare una band? E dove vi ha portato questo progetto?
Da quando ho vent’anni, sono stato poche volte senza avere una band. Dopo una serie di disastri personali e familiari e dopo un periodo di qualche anno senza una vera band, mi sono ributtato nella musica anche per ritrovare me stesso e superare dolori profondi.

La musica è stata una bella terapia.

Ma sarebbe tornata comunque. I RAB4 (uno sciocco acronimo sghembo, Rock-A-Blanche come Roccabianca, paese di Roldano, il nostro chitarrista, e 4, come il numero della formazione iniziale, presto allargata a 5) hanno certamente un’anima americana. Ma tutta la musica moderna è figlia della musica americana. Noi abbiamo tanto folk americano nel DNA (blues, ovviamente, vecchio country, bluegrass, soul), ma soprattutto nella nostra crescita ci sono tutte le grandi band americane e inglesi degli anni Sessanta così come i grandi cantautori.

Oggi suoniamo ovunque ce ne sia data l’opportunità e nei quasi otto anni di vita di questo gruppo siamo stati due volte negli USA, due volte a Londra e due volte in Germania. La band ha una sonorità che io definisco sempre “molto classica”, per quanto poi, a ben vedere, il nostro sound risulti tutto sommato originale. Io mi alterno fra chitarre elettriche e acustiche, Roldano Daverio è alle altre chitarre, Paolo Crovini suona il basso con me da quasi trent’anni, “Magico” Umberto Minoliti è all’organo Hammond e Max Pieri alla batteria. Abbiamo suonato insieme per tantissimi anni in diverse formazioni e l’intesa, umana ancor prima che musicale, è pressoché assoluta.

Hai tradotto in italiano il libro Il Rumore dell’Anima di Ashley Kahn e anzi si può quasi dire che lui ti considera il suo traduttore ufficiale. Cosa pensi di Ashley e cosa ti ha più colpito del suo modo di scrivere e raccontare?
Ormai Ashley è un amico più che un autore da tradurre. In realtà, ho solo tradotto questa sua ultima fatica, anche se confesso che mi sarebbe piaciuto tradurre anche i suoi libri precedenti. Ashley è pure stato ospite del mio festival, “Dal Mississippi al Po”, in tre diverse occasioni.

La cosa che trovo più straordinaria del suo modo di scrivere di musica è non scordarsi mai che la musica viene prima di qualsiasi altra cosa.

Ashley ha una personalità forte, ma non mette mai l’ego dello scrittore davanti all’arte del musicista. E sottolinea sempre che, quando si scrive di musica, la scrittura deve essere funzionale alla musica, deve spingere il lettore ad accostarsi alla musica, deve favorire un ascolto più aperto e, soprattutto, più consapevole. Naturalmente, non va dimenticata la grande conoscenza della materia che Ashley mostra in ogni occasione.

Il rapporto tra Ashley Kahn e il Jazz è molto forte. Come ti poni nei confronti del Jazz, quali sono i modelli a cui ti ispiri e quali artisti o etichette della scena contemporanea ti sentiresti di consigliare?
Non sono un appassionato di jazz. Non sono certamente un jazzista. Non ne ho le competenze tecniche e armoniche. Ciò detto, adoro la musica a tutto tondo. Se un disco mi piace, non mi pongo il problema se sia jazz o rock. Ci sono dischi rock che non reggo e dischi jazz che mi piacciono tanto.

Detesto un certo snobismo di presunti jazzisti nei confronti di forme musicali estranee al jazz, così come non mi piace per nulla chi liquida acriticamente il jazz come qualcosa di rivolto esclusivamente agli eletti. Il jazz lo ascolto a piccole dosi. Ci sono dischi e artisti che mi piacciono tanto e altri che trovo indigesti. Per esempio, mi piace tanto il Miles Davis del periodo appena precedente e appena successivo a Kind of Blue (uno dei miei dischi preferiti), mentre ho qualche difficoltà ad ascoltare John Coltrane. Adoro Monk e faccio un po’ più fatica con Bill Evans. Credo che si tratti di gusti personali.

In qualità di traduttore hai curato l’edizione italiana delle opere di Jeffery Deaver ma anche di tanti altri autori come Joe Landsdale. Come approcci un testo e qual è la tecnica per riuscire ad entrare nel linguaggio di tanti autori diversi e capirne l’essenza?
Di Jeffery Deaver ho solo tradotto tre romanzi e di Joe Lansdale sei. Non ho una tecnica particolare. Il punto di partenza è una conoscenza piuttosto profonda della lingua inglese. Ho sempre letto tantissimo in inglese e questo, ovviamente, mi aiuta. Ho sempre letto e scritto tanto e anche questo aiuta.

Il segreto per entrare nella lingua di un altro è cercare di far uscire la sua voce, di restare nascosto tra le righe, di non prendere il sopravvento sull’autore.

Uno dei difetti principali dei traduttori, anche di traduttori molto noti, è proprio quello di sentirsi scrittori quando traducono e di sostituirsi all’autore. È un errore imperdonabile e lo trovo pure un atteggiamento di scarsa umiltà. Il modo migliore per rendere giustizia alla voce dell’autore è sparire del tutto o quasi.

Non ho mai pensato che il detto “tradurre è un po’ tradire” fosse calzante. Al contrario, lo trovo un’idiozia assoluta. Dico sempre che la traduzione letteraria è una traduzione letterale. Questo non significa una traduzione fatta coi piedi, bensì una traduzione profondamente rispettosa, naturalmente in armonia con le leggi della lingua in cui si traduce un testo straniero.

Parlaci del Seba Pezzani scrittore. Lo scorso anno hai pubblicato per Giulio Perrone Editore Profondo Sud. Un viaggio nella cultura del Dixie. Come sta cambiando il Sud dell’America e quali sensazioni culturali e musicali hai colto in questo viaggio che ti ha portato lungo il corso del Mississipi?
Il mondo è sempre in trasformazione eppure resta sempre uguale a se stesso. Forse, questa dicotomia è ancora più vera nel Dixie, una terra antica, per quanto la possa essere una fetta d’America. Ci sono tanti valori e tante contraddizioni in questa terra dalle tinte forti. Credo che vi si percepisca un’atmosfera positivamente stantia. Ma mi pare pure che nel Sud degli Stati Uniti si stiano sperimentando i primi tentativi pratici di convivenza tra neri e bianchi, dopo l’infamia dello schiavismo e della segregazione.

Il Mississippi e il Po: due fiumi, uno del nord dell’Italia e l’altro del sud degli Stati Uniti ma comunque due corsi lunghi con un’anima musicale e delle storie da raccontare. Che analogie e differenze vedi tra questi due grandi fiumi?
Tutte le grandi civiltà si sono abbeverate alle acque di grandi fiumi. Ci sono angoli del Po che ricordano in maniera straordinaria certi scorci del Mississippi. Forse finisce lì. O forse no. C’è una generosità umana anche nel tessuto sociale delle terre alluvionali dei due fiumi. E poi c’è un’Emilia che da sempre si sente parente stretta delle zone omologhe intorno al Mississippi. Per il resto, cercare ulteriori similitudini mi pare eccessivo. L’America e l’Italia sono due mondi davvero lontani.

Sei un esperto conoscitore della musica e della cultura americana in genere. Al di là delle radici e delle grandi icone del rock cosa apprezzi di più di questo Paese oggi a livello musicale?
La musica continua a esercitare un grande fascino su di me. Ma ancor più intrigante è il senso di libertà che si percepisce, soprattutto nella grande provincia americana. Noi ci immaginiamo un’America modernissima, ipertecnologica, eppure se prendiamo l’automobile e ci addentriamo nel paese, su qualche strada statale, ci può capitare di ritrovarci in un mondo antico, in cui il tempo pare essersi fermato. Mi incuriosisce la verginità della popolazione di certe zone di provincia, l’irripetibilità di certe scene a cui ti può capitare di assistere, la curiosità e l’isolamento di determinati paesi. E poi c’è la forza, talvolta la violenza di una natura selvaggia che vive fianco a fianco con la modernità.

Nel tuo libro: “Se davvero volete cogliere l’America in una delle sue tante incarnazioni, dovete accettare uno dei suoi cardini ossia la star. Il concetto stesso di star moderna è una concezione totalmente americana e presto globalizzata”. Come può resistere secondo te il concetto di star alla proliferazione di suoni di ogni stile e genere, favorita anche dalla rete, dalle piattaforme di streaming e da un nuovo modo di consumare la musica?
Le modalità di consumo della musica possono cambiare, ma le star resisteranno. Saranno magari di tipo diverso. Intanto che te lo dico, non so neppure quali siano le vere star odierne: temo di essere troppo vecchio e di aver già perso di vista i modelli di riferimento delle nuove generazioni.

Quello che intendevo dire, una riflessione su una frase che mi disse diversi anni fa un altro amico scrittore, James Grady, autore de I sei giorni del Condor, è che sono stati davvero gli Stati Uniti a codificare definitivamente il concetto stesso di star, a dare un senso alla mitizzazione della star attraverso piedistalli ideali che le trasformano in semidei. Oggi la star è una figura globale, ma è in USA che ha avuto la sua prima e più imperitura canonizzazione. Le piattaforme del consumo possono cambiare, ma certe cose rimarranno, magari assumendo contorni leggermente diversi, ma non perdendo di certo la capacità di condizionare il pubblico.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un ritorno del vinile che è diventato quasi il supporto preponderante sul mercato, a tal punto da mettere in discussione la sopravvivenza del cd. Come interpreti questo ritorno?
È un fatto positivo e spero che sia un’inversione di una tendenza: quella ad approssimarci al de profundis della musica. Ovviamente, spero che i giovani accostandosi ai vinili spostino indietro la lancetta del tempo. Siccome, però, il tempo non possiamo fermarlo, temo che sia un’illusione. Anche perché quelli che si avvicinano al mondo del vinile solitamente ascoltano musica vecchia, la musica della generazione precedente la mia, che ha finito per essere la mia musica. Mi duole ammetterlo, ma mi sembrano appassionati di abiti vintage. Possono piacere, ma restano vintage in un mondo in cui la stragrande maggioranza dei giovani ama altri abiti, per quanto spesso inguardabili. Almeno secondo me. Intendiamoci: mi fa piacere scoprire che qualche ventenne ascolti il vinile di Revolver dei Beatles o di Led Zeppelin II. Però non credo che quei pochi salveranno il mondo.

Oggi le radio sono di fronte alla necessità di dover adeguare palinsesti e offerta musicale alla pluralità del DAB e al progressivo abbandono delle FM. Qual è il tuo rapporto con la radio e quale pensi possa essere il valore aggiunto che un programma radiofonico oggi possa dare ad un ascoltatore informato e curioso?
Ascolto la radio solo quando sono in macchina (non spesso, fortunatamente) e, quando lo faccio, tendo ad ascoltare programmi di informazione e non di musica. Mi piacciono tanto le radio americane locali, forse perché ce ne sono tante che programmano classici e rarità a ciclo continuo. Immagino che programmi radiofonici che privilegino la musica di qualità e che, magari, diano qualche informazione, senza risultare stucchevoli, possano essere la chiave.

Sei tuttora direttore artistico del festival musicale-letterario “Dal Mississippi al Po” di Piacenza. Com’è nata l’idea di associare le tue due grandi passioni, musica e letteratura e dare vita ad un Festival con una programmazione così eclettica e originale?
Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. La scelta l’ha fatta dal primo anno l’amico Davide Rossi, che ha concepito il festival e di cui sono diventato dalla seconda edizione il partner ideale e il condirettore. Lui si occupa della musica, io dei libri. Musica e libri in realtà mi sembrano un binomio talmente organico da risultare quasi scontato. La musica è decisamente più divertente delle parole di uno scrittore. E te lo dice uno che fa entrambe le cose. Il resto lo fa la scelta di buoni musicisti con qualche storia da raccontare e, magari, una predisposizione alla scrittura oppure di bravi autori appassionati di musica se non, addirittura, essi stessi musicisti.

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