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Berlinale 2014. Un piccolo, grande festival.

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Un red carpet così illuminato di stelle – per giunta hollywoodiane – non si vedeva da tempo in un festival europeo. Ma Berlino non si è risparmiata e ha scelto di aprire la 64° edizione del Festival Internazionale del Cinema con l’attesissimo film in concorso di Wes Anderson, The Grand Budapest Hotel, e il suo nugolo di star, dall’attore feticcio Bill Murray a Jeff Goldblum, da Tilda Swinton a Ralph Fiennes fino a Saoirse Ronan, Edward Norton e Willem Dafoe. Dopo l’amore e la tempesta di Moonrise Kindom, Anderson ci regala un altro straordinario dipinto animato, una fuga in mondi immaginari popolati da personaggi bizzarri, senza tuttavia mai perdere il contatto con la realtà, quella storica e quella intima dell’animo umano. La pellicola che racconta le disavventure del concierge di un albergo, Monsieur Gustav, accusato del furto di un prestigioso quadro e del suo giovane protetto, Zero Moustafa, incaricato di salvarlo, è un omaggio dichiarato – “ zweigiano nel sapore, colore, spazio e tempo” – allo scrittore e drammaturgo austriaco Stefan Zweig, un pacifista in tempo di guerra che pagò con l’esilio a vita e con il rogo dei suoi scritti l’opposizione coraggiosa al regime nazista. In lui e nel libro L’impazienza del cuore Anderson scova il filo narrativo per raccontare un’Europa insieme magica e terribile che ha conosciuto le rivoluzioni e il regime, la bellezza dell’arte e i campi di sterminio. Inevitabile il confronto con i maestri della commedia classica degli anni Trenta come Billy Wilder, ma soprattutto Ernst Lubitsch e la tagliente satira anti nazista del suo Vogliamo Vivere (To Be Or Not To Be) a cui il regista texano si è esplicitamente ispirato. A chi, guardando il film, ha lamentato una certa monotonia creativa nella forma e nei contenuti ricordiamo la politica degli autori elaborata da Truffaut, Rivette, Rohmer e Godard secondo cui se un autore riesce a mantenere nella messa in scena sia la dimensione etica (se stesso) sia quella estetica la realtà oggettiva), allora quell’autore è il cinema. Wes Anderson, con questa nuova fiaba sulle possibilità del bello in un mondo abbruttito e grigio, è senz’altro cinema.

Sempre in concorso e direttamente dal Sundance Festival la pellicola Boyhood di Richard Linklater regista, tra gli altri, della trilogia Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight e dei surreali Waking Life e A Scanner Darkly, entrambi girati con la tecnica del rotoscope. Il film è un lungo e laborioso progetto partito nel 2002 con il medesimo cast di attori, tra cui un immancabile Ethan Hawke, che hanno girato anno dopo anno per raccontare l’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo americano oggi alle prese con il divorzio dei propri genitori. È un racconto di formazione quasi in presa diretta, dove il tempo filmico è davvero tempo reale che scorre, proprio come era accaduto per la sua trilogia sugli innamorati di Prima di

Tra i film più attesi nella sezione Competition troviamo The Little House del giapponese Yoji Yamada, autore di Tokio Family, basato sul romanzo pluripremiato di Koko Nakajima, storia di un amore clandestino in una piccola casa di Tokio dal tetto rosso, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e il “paranormal” drama Aloft con Jennifer Connelly e Cillian Murphy nei panni di madre e figlio, della giovane regista cilena Claudia Llosa,  scoperta al Sundance nel 2006 e vincitrice nel 2009 dell’Orso d’Oro come miglior film per The Milk of Sorrow.

Altri due titoli che la giuria internazionale, presidiata quest’anno dal  produttore James Schamus e che vede tra i suoi componenti Christoph Waltz e Michel Gondry, dovrà valutare ci sono La tercera orilla dell’argentina Celian Murga, che nella sua giovane carriera vanta anche uno stage con Martin Scorsese, e Inbetween Worlds dell’austriaca Feo Aladag. La pellicola argentina racconta la doppia vita di uno stimato medico e il rapporto conflittuale con il figlio maggiore, deciso a diventare un uomo molto diverso dal padre, Aladag che nel 2011 arrivò alla selezione degli Academy Awards con When We Live porta sullo schermo la storia di un conflitto – atavico – tra culture tra loro diverse servendosi del punto di vista di un soldato tedesco in Afghanistan.   

In concorso non troviamo nessuna pellicola italiana, il nostro cinema sarà invece presente il 10 e l’11 febbraio nella ricchissima sezione Panorama Special ( 52 film da tutto il mondo) con due film: il drammatico In grazia di Dio di Edoardo Winspeare (regista di Sangue vivo e i Galantuomini) e il documentario di Gianni Amelio, Felice chi è diverso. Il primo racconta le vicende di quattro donne (tutte attrici non professioniste) nel sud del Salento costrette a reinventarsi a causa della crisi economica. Il secondo, il cui titolo è tratto da una poesia di Sandro Penna, è un viaggio temporale, fisico, culturale ed emotivo per narrare attraverso storie e testimonianze l’omosessualità in un paese cattolico e conservatore come il nostro nel corso del Novecento.

E di omosessualità si parla anche in Love is Strange di Ira Sachs: i giganti Alfred Molina e John Lithgow sono due uomini innamorati che dopo 39 anni insieme, quando a New York viene legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, decidono di sposarsi. Ne accadono di ogni ai non più giovani sposi, licenziamento e problemi familiari compresi, a dimostrazione di come certi pregiudizi e tabù siano così profondamente radicati da imporre un cambiamento culturale prima ancora che legislativo.

Nella sezione Panorama Dokumente troviamo il documentario degli inglesi Iain Forsyth e Jane Pollard, 20,000 Days on Earth, presentato in anteprima al Sundance, che racconta la vita e il genio del musicista australiano Nick Cave al suo ventimillesimo giorno di vita sulla terra, come gli piace definire il suo cinquantaseiesimo anno di età. Seguito giorno e notte dalle telecamere, dal letto al palco passando per lo studio di registrazione, il ristorante e la macchina, i due filmmaker ci conducono fin dentro il processo creativo del rocker.

Di altro tono e contenuto è il documentario animato Last Hijack di Tommy Pallotta e Femke Wolting sulla vita di due pirati somali e della loro comunità costiera.

Si prospetta come un nuovo piccolo capolavoro “alla Gondry” il documentario – conversazione con il celebre linguista e filosofo americano Noam Chomsky, Is The Man Who is Tall Happy? Michel Gondry non manca di stupire, trascinando lo spettatore in un mondo incantato anche quando racconta di complicate teorie.

Una sezione che merita attenzione è il Forum del Festival, che accoglie i film più sperimentali e di nicchia e che quest’anno accoglie ben due opere dello stesso regista (evento più unico che raro per un festival), l’americana Josephine Decker. Con Butter on the Latch e Thou Wast Mild and Lovely la giovane filmmaker racconta l’angoscia, l’inquietudine e la violenza nelle relazioni umane, d’amore e d’amicizia, e lo fa con uno stile unico, camera a mano, sfocature, primissimi piani e un montaggio serrato che rende entrambe le pellicole un esempio eccellente di cinema espressionista.

Fuori dalla competizione è impossibile non citare l’attesissimo Nymphomaniac Vol. I di Lars Von Trier, che in Italia arriverà a marzo grazie alla Good Films di Ginevra Elkann e che il  direttore della Berlinale, Dieter Kosslick, ha sentito il dovere di giustificare con un entusiastico “l’estetica è impressionante e radicale”. Come ogni film di Lars Von Trier, anche questo ha già diviso i critici e il pubblico, qualcuno lo ha definito un “porno d’autore e nulla più”, salvando dalla lapidazione soltanto il cast composto da nomi hollywoodiani come Uma Thurman, Shia LaBeouf, Christian Slater, Willem Dafoe, Jamie Bell, Connie Nielsen, dagli attori feticcio Udo Keir, Stellan Skarsgaard e Jean-Marc Bar e da Charlotte Gainsbourg, la ninfomane del titolo. Di certo raccontare il sesso, in maniera così cruda ed estrema, non aumenterà il numero degli amici, ma a questo il buon Lars è e ci ha abituato. In Germania ricordano ancora la sua dichiarazione di stima nei confronti dell’estetica hitleriana di Leni Riefenstahl ed Albert Speer.

Quest’anno l’Orso d’Oro alla carriera verrà assegnato al regista inglese Ken Loach, esponente del Free Cinema e straordinario interprete della condizione di vita della classe operaia in Gran Bretagna con film come Riff Raff, Bread and Roses, Paul, Mick e gli altri, Il vento che accarezzava l’erba, solo per citarne alcuni.

La Berlinale ha deciso di omaggiare lo straordinario attore Philip Seymour Hoffman, scomparso il 2 febbraio scorso per un’overdose, con la proiezione di Truman Capote di Bennett Miller, presentato proprio a Berlino nel 2006 e che, nello stesso anno, regalò all’attore il premio Oscar come miglior attore protagonista.

Il Festival del Cinema di Berlino ha sempre avuto una sua identità precisa nonostante sia il più giovane tra i festival europei – diverso da Venezia troppo dipendente dal cambio di guardia nella direzione artistica e da Cannes che, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, riesce ad unire con grande maestria il glamour e l’arte, l’autorialità e l’industria – al contrario è stato radar di autori e progetti sperimentali e innovativi (e non è un caso che molti dei film presentati al Sundance si ritrovino in cartellone al festival tedesco), che poco si accordano con le regole del box office. Con i suoi 1000 film e oltre, le sue 2500 proiezioni, 60 sale in 25 cinema distribuiti per tutta la città e 200.00 biglietti venduti, la Berlinale si conferma un appuntamento imperdibile per chi nel cinema riesce a cogliere quel potenziale libertario e di rottura che ha trasformato l’“invenzione senza futuro” dei fratelli Lumiere nella Settima Arte.

Per conoscere il programma del festival visitate la pagina ufficiale della Berlinale

 

 Chiara Ribaldo | Bake Agency

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