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Fabrizio Spera, il Blutopia e Cecil Taylor

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Fabrizio Montini Trotti.

Musicista sopraffino, tecnicamente inarrivabile e capace di una visione del jazz senza confini, Cecil Taylor ha lasciato un vuoto incolmabile nel panorama dell’avanguardia.

L’artista newyorkese, recentemente scomparso all’età di 89 anni, era considerato il padrino del free jazz insieme ad Ornette Coleman.

Riconosciuto dalla critica quale esempio di sintesi perfetta, sul piano culturale ancorché musicale, tra i suoni della tradizione afro-americana e la sperimentazione europea, l’artista originario del Queens (ma cresciuto a Boston) ha attraversato quasi sei decenni di grande jazz articolando il suo pensiero in altrettante fasi creative.

Grazie all’incontro con i musicisti della scena avantgarde contemporanea, in occasione delle sue lunghe residenze in Europa, ha contribuito a definire i canoni liberi dell’improvvisazione free, consentendo l’incontro tra le strutture armoniche della musica afroamericana e la frammentazione della atonalità.

Lavorando per sottrazione oltre che per addizione di diversi elementi e tradizioni stratificate, Cecil Taylor non ha mai abbandonato la connotazione percussiva della sua ispirazione pianistica, pur assecondando l’evoluzione naturale del suo stile, dagli esordi monkiani fino alle propaggini più cerebrali e talvolta estreme della sua personale idea di sperimentazione.

Per ricordare Cecil Taylor e tracciare i contorni della sua eredità musicale nella scena free contemporanea, Fabrizio Montini Trotti ed io abbiamo avuto il piacere di incontrare Fabrizio Spera, musicista, cultore del jazz e dell’avanguardia nonché uno dei proprietari di Blutopia, record shop romano punto di riferimento per gli appassionati di musica di qualità.

“Penso alla musica in termini di possessione e di trance”: è un’affermazione di Cecil Taylor, in un’intervista con una rivista americana, in cui si può cercare la chiave dell’arte del pianista afroamericano, scomparso lo scorso 5 aprile, pochi giorni dopo avere compiuto ottantanove anni. Possiamo dire che il suo approccio alla musica era quasi fisico?
Cecil Taylor è stato un personaggio difficilmente contenibile e sintetizzabile in pochi appunti.
Il suo era un approccio fortemente fisico alla musica e questo fin dall’inizio.

Proprio sul piano fisico la sua era una musica che richiedeva tantissima energia e concentrazione. Sono diversi gli aneddoti sulla questione della fisicità delle note di Cecil Taylor.

Leggevo un bel ricordo di Richard Williams, critico inglese, che racconta di averlo conosciuto molto presto, alla fine degli anni ’60, in uno dei primi suoi concerti a Londra.
Al termine di una performance estenuante, Williams chiese a Taylor come facesse a non sentirsi sfinito. Taylor rispose: “Probabilmente non hai capito, adesso andiamo in discoteca, perché fa bene ai piedi!”.

Taylor era un instancabile e si dice che si esercitasse tantissime ore al giorno, comprese le date dei concerti. Arrivava ad esercitarsi a casa fino all’orario più vicino al concerto.

Se era a New York faceva pratica a casa fino al tempo utile per prendere un taxi, arrivare al teatro o al club ed iniziare subito a suonare. Era un continuo e richiedeva la stessa energia a tutti i musicisti che hanno suonato con lui.

A volte cercava anche, a seconda dei casi, di inserire un elemento di tensione e di confronto nel gruppo: per esempio faceva provare il suo gruppo per una settimana su determinate partiture, poi arrivavano al concerto, lui saliva sul palco, passava su tutti i leggii, prendeva le partiture e le buttava… E iniziava a suonare. A quel punto i componenti del gruppo si trovavano obbligati a dimenticare totalmente quello che avevano studiato e preparato in una settimana di prove e improvvisare da zero…

Quello di Taylor secondo te era proprio un metodo che applicava alla performance dal vivo oppure in generale già all’atto della composizione il suo approccio era veramente radicale e libero?
Ci sono diversi momenti da considerare: il primo Taylor, quello della fine degli anni ’50, era legato a strutture più jazzistiche di derivazione “monkiana”, nelle quali i musicisti suonano ancora sul tempo, sequenza-assoli. Col passare degli anni, invece, la musica di Cecil si apre e diventa sempre più informale.

Taylor ha scritto e composto talmente tanta musica che è difficile identificare ogni passaggio e ogni periodo. C’erano continuamente elementi di composizione e improvvisazione che si alternavano. Molto spesso anche la maniera di intendere le parti composte e strutturate era completamente libera.

Quello che ha mantenuto costante nel tempo è stata la sua indole percussiva al suono del pianoforte.
Il pianoforte, ricordiamolo, è uno strumento a percussione; rientra, infatti, in quella precisa categoria di strumenti e Cecil Taylor lo impiegava molto in quella direzione.

È stato uno dei musicisti afroamericani che a un certo punto ha stretto una serie di relazioni importanti con i musicisti europei.

Soprattutto negli anni ’80, lui fa una residenza lunga a Berlino, organizzata dalla Free Music Production. Durante quel periodo, ampiamente documentato, Cecil fa una serie di incontri importanti e duetti con tutti i batteristi europei quali Paul Lovens, Han Bennink, Gunter Sommer, Tony Oxley con il quale lavorerà parecchio sia in duo che in altre formazioni. E poi c’è il sassofonista Evan Parker.

Cecil è uno dei musicisti afroamericani che più naturalmente è entrato in simbiosi con gli europei, anche perché ad un certo punto del suo percorso artistico, la sua musica si era completamente liberata. Di conseguenza riuscì a trovare sintonia nell’analogo processo degli artisti dell’avanguardia europea, i quali andavano sempre più verso la libertà e sempre meno verso le strutture jazzistiche tradizionali.

Miles Davis diceva di lui che non sapeva suonare…
Quello che dice Miles va sempre preso con le molle…
In realtà Cecil Taylor aveva una preparazione straordinaria.

La sua tecnica era mostruosa da ogni punto di vista, da quello ritmico a quello armonico; conosceva benissimo la tradizione occidentale classica, in realtà conosceva tutte le tradizioni.

Per quanto la sua musica fosse tendenzialmente radicale, Cecil amava Billy Holiday, Charlie Parker e la tradizione del jazz, profondamente.

A un certo punto della sua carriera fa un disco in duo con Mary Lou Williams, una delle pianiste più importanti del periodo pre-bob del jazz.

Nell’articolo di Richard Williams che ho citato prima, il critico racconta di un aneddoto della fine degli anni ’60: dopo un concerto il giornalista riaccompaga Taylor in albergo e nella sua stanza, appoggiato su di un tavolo, intravede la copertina di un disco di Stevie Wonder. Questo non deve stupire perché a Cecil Taylor piaceva la musica pop “black”.

Si tratta di un altro fattore importante della cultura afroamericana e che ci aiuta a tracciare un profilo di Cecil Taylor, cioè che, a differenza della cultura europea che tende ad etichettare e quindi a generare nette separazioni tra i generi musicali, gli afroamericani tendono, invece, ad includere. Quando si parla di grande musica nera per loro non esistono distinzioni tra Stevie Wonder e Anthony Braxton: è un continuo fra la tradizione più classica e la corrente più radicale.

Anche buona parte della critica, per analoghi preconcetti, è portata a pensare che un musicista che fa avanguardia non debba avere rapporti con artisti fuori dalla propria corrente o scena.

In quell’occasione Taylor disse anche che la musica di Stevie Wonder gli ricordava i grandi arrangiamenti che resero celebre l’orchestra di Dizzy Gillespie negli anni ’40.

È vero che Cecil Taylor aveva una passione anche per la danza?
Certo, la danza ma non solo, era anche un grande appassionato di poesia.

Soprattutto nei concerti “in solo” la performance iniziava con lui che vociferava da dietro il palco, poi entrava e faceva tutta una serie di movimenti prima di sedersi al pianoforte mai prima che fossero trascorsi dieci, a volte anche quindici, minuti.

Per quanto riguarda la danza, la sua era una passione molto forte, tanto che gli piaceva andare a ballare in discoteca.

Mi ricordo di alcuni musicisti tedeschi che lo ospitavano a Berlino nella prima metà degli anni duemila, i quali raccontavano che dopo ogni concerto Taylor amava andare in qualche club e tornava all’alba, all’età ormai già ragguardevole di 70 anni.

Un giorno tornò a casa particolarmente stanco. Chiese di andare da un dottore che gli somministrò qualcosa per tirarlo su.

Guarda caso proprio quella sera i suoi amici avevano organizzato un party in suo onore con molti invitati. Nonostante le condizioni di salute di Taylor, la festa non viene rinviata, tuttavia, all’arrivo degli ospiti gli amici musicisti si preoccupano di avvisarli del fatto che Cecil non stesse troppo bene e di avere almeno la premura di fumare fuori, sul balcone di casa.

Ad un certo punto della serata Cecil tranquillamente seduto sul divano, tira fuori una canna e dice: “Posso fumare un po’ d’erba?”

Concordi sull’opinione che Cecil Taylor fosse profondamente incompreso dagli afroamericani, i quali in più di un’occasione non consideravano la sua musica, considerata troppo elitaria?
Taylor soffriva sicuramente dei problemi che devono affrontare tutti i musicisti che fanno delle scelte radicali nella loro vita. Non era musica facile, la sua, neanche per chi era abituato ad ascoltare certa musica.

Gli inizi della sua carriera non furono per niente semplici…
Stiamo parlando degli anni ’50. In realtà molti pensano agli anni ’60 ma bisogna ricordare che verso la metà degli anni ’50 il contesto sociale e culturale era diverso, succedono delle cose fondamentali e come lui anche Ornette Coleman e altri musicisti dello stesso periodo non vengono immediatamente compresi, e soffrono, sicuramente.

Ornette come Taylor ha dovuto attendere a lungo prima di essere riconosciuto; proprio nella percezione e nella forza dirompente della sua musica ancora oggi risentiamo di quello scompenso iniziale, di quella mancanza di ricezione da parte del pubblico del jazz.

Dalla metà degli anni ’60 in poi, invece, soprattutto con i due dischi Unit Structures e Conquistador, Cecil Taylor viene annoverato tra i grandi del jazz dell’epoca.
Questo lo si deve anche al fatto che i due album erano su etichetta Blue Note.
In quei dischi avviene il cambio rispetto alla prima fase, quella “monkiana”, con l’entrata di Andrew Cirille, i due contrabbassi di Alan Silva, Henry Grimes e soprattutto Jimmy Lions.

Lions, in particolare, è stato il suo alter ego al sassofono, oltre che un musicista straordinario, di derivazione bop con la radici forti di Charlie Parker e l’apertura decisa verso il free jazz.

Lions, scomparso prematuramente, è stato il musicista a lui più vicino, come testimoniano tante registrazioni importanti: quelle in trio, quale ad esempio Cafè Montmartre, con Andrew Cirille e Jimmy Lions appunto, senza la presenza del contrabbasso.

Cecil Taylor è conosciuto come uno dei massimi interpreti della musica atonale.
Fino a quel momento il jazz era molto legato a delle strutture armoniche che provenivano dalla tradizione della canzone americana.

Ancora e fino a tutto il periodo del bop i musicisti suonavano sopra delle strutture armoniche definite e non uscivano da queste; quindi le improvvisazioni erano relative a quegli accordi.

Con Ornette Coleman e Taylor nello stesso periodo, le strutture armoniche si aprono e di conseguenza i musicisti improvvisano con maggiore libertà, con meno coerenza armonica e di conseguenza la musica inizia a prendere la direzione dell’atonalità.

Questo è uno degli elementi più dirompenti; mentre ancora ritmicamente rimangono legati alla tradizione che viene dal bop, se ascolti Ornette di quel periodo sentirai che suona lo swing in maniera abbastanza tradizionale; tuttavia sono gli accordi che mancano mentre le improvvisazioni prendono il sopravvento.

Hai assistito alle sue performance dal vivo?
Si, più volte. L’ho visto la prima volta in Canada, in un festival a Victoriaville, credo fosse il 2000 ed era in solo. Poi l’ho rivisto a Berlino con Tony Oxley e una volta sola a Roma, all’Auditorium, quando aveva aperto da pochissimo anche se acusticamente l’esibizione fu molto penalizzata.

Prima hai citato il Canada, come si sta muovendo tutta quella scena musicale così fervida negli anni ’90?
Quella scena si è abbastanza ridotta in termini di importanza mediatica; i musicisti che ne fanno parte viaggiano di meno all’estero ma sono comunque tutti attivi a livello locale e c’è un forte senso della comunità. In città come Montreal c’è ancora oggi una comunità di artisti molto interessanti, tra i quali André Duchamp, Jean Derome e René Lussier.

Parliamo dei progetti musicali di Fabrizio Spera.
Ce ne sono alcuni che vanno avanti da molti anni, ad esempio il trio di improvvisazione elettro-acustica Ossatura che esiste dagli anni ’90.

Attualmente con il progetto Roots Magic le cose stanno andando molto bene.

Abbiamo realizzato due album (“Hoodoo Blues And Roots Magic” e “Last Kind Words”, per la casa discografica portoghese Clean Feed Records, ndr) i quali stanno non soltanto vendendo ma anche ottenendo dei buoni consensi, soprattutto all’estero. Non so se sia un bene o un male ma il novanta per cento delle recensioni escono su riviste specializzate estere.

I due dischi con i Roots Magic sono stati pubblicati dell’etichetta portoghese Clean Feed, una label molto attenta ai suoni dell’avanguardia.
Si tratta di un’etichetta già riconoscibile nella sua identità artistica: per tale ragione ci ha aiutato molto il fatto che entrambi i dischi siano su Clean Feed.

Siamo stati due settimane fa in tour negli Stati Uniti, poi andremo in Slovenia, dopo torneremo in Portogallo e ancora in Polonia.

Sabato 5 maggio abbiamo suonato al festival Circuitazioni a Roma al Cinema Palazzo.

Blutopia è sia un negozio di dischi che uno spazio per eventi e concerti in linea con la vostra idea di musica. Come è nato questo progetto?
Ho lavorato per tanti anni a Disfunzioni Musicali fino alla chiusura nel 2007; nei due anni successivi ho lavorato a Rinascita curando il settore del jazz e dell’avanguardia. Successivamente, con la chiusura anche di Rinascita ho iniziato a lavorare come curatore per gli stessi generi per la distribuzione Goodfellas.

Con il passare del tempo, tuttavia, mi sono reso conto che mancava il contatto diretto che ti dà il negozio di dischi per cui con alcuni amici abbiamo fatto partire il progetto Blutopia che, fin dall’inizio, si è presentato come luogo fisico d’incontro. A partire dalla vendita dei dischi, partendo dall’esperienza di sempre, ovvero che dall’ascolto dei dischi si generano amicizie e nuovi contatti.

È stato uno sforzo iniziale ed è tuttora un impegno mantenere la stessa linea ma se avessimo voluto soltanto vendere dischi lo avremmo potuto fare con molto meno sforzo e dispendio di risorse, ad esempio on-line.

Il ritorno del vinile anche nei dati relative alle vendite dei supporti sta cambiando le prospettive per i negozi di dischi?
È vero che proprio in questo momento qualcosa si muove sul mercato ma ci sono delle difficoltà culturali a diversificare l’offerta e a mantenere un progetto con un’identità forte e molto settoriale quale è Blutopia.

Ci racconti la programmazione degli eventi qui a Blutopia?
Un concerto a settimana ormai è praticamente un appuntamento fisso da tanto tempo.

Questo dimostra che qui si crea una bella situazione di ascolto e si è creata, nel tempo, una piccola comunità di ascoltatori e appassionati; però, significa anche che intorno sono sempre meno i locali dove si può suonare, di conseguenza si riempie uno spazio come questo che non è un locale ma intercetta comunque una “fame” di locali dove i musicisti possano suonare.

Il nostro calendario di concerti, infatti, è pieno fino alla fine di giugno, a riprova del fatto che molti artisti non trovano spazi dove esibirsi e accettano volentieri Blutopia che tuttavia non è un locale bensì un negozio di dischi, in uno spazio limitato e con a disposizione un budget ridotto.

Nonostante tutti questi limiti oggettivi ed economici i musicisti continuamente mi chiedono di venire a suonare da noi.

Quella dell’assenza cronica di locali dove fare musica è una situazione molto locale, cioè riguarda essenzialmente la città di Roma.
Sono d’accordo, non ne farei una situazione generalizzata, anche perché in Italia ancora resistono delle buone rassegne e dei direttori artistici che sanno di che cosa parlano quando mettono insieme una line-up, come ad esempio il Centro d’Arte di Padova, il festival di S. Anna Arresi o l’Area Sismica di Forlì.

In particolare il festival in programma in Sardegna, dove quest’estate saremo con i Roots Magic, presenta sempre un programma interessante capace di attrarre anche un pubblico internazionale.

A Roma, purtroppo, i locali mancano d’identità e di idee. Un luogo straordinario come la Casa del Jazz, ad esempio, non lo puoi prendere come punto di riferimento, non rappresenta alcuna comunità di appassionati o ascoltatori a livello locale.

Grazie a Fabrizio Spera per questa bella playlist!  😉

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