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Queen of Denmark

Ogni tanto è il caso di ricordare che Queen Of Denmark di John Grant è uno dei dischi più belli usciti nel presente secolo (è del 2010).

Almeno, siamo in molti ad avere questa sommessa ma radicata convinzione, condivisa più in Europa, Regno Unito in particolare, che negli USA, dove Grant è nato 54 anni fa, anche se da anni vive più che altro in Islanda. Per dire, Pitchfork se ne è occupato una sola volta, con la recensione comunque positiva di un altro album, e l’enciclopedica Allmusic ha dato a Queen Of Denmark appena due stelle e mezzo, causando l’indignazione di svariati lettori.

Invece, la stampa britannica, specializzata o meno, accolse quel disco come un capolavoro, che con molta approssimazione potremmo definire soft rock, anche se poi non assomiglia davvero a nessuno dei dischi che soprattutto negli anni ’70 ebbero quella qualifica, nel bene o nel male.

Queen Of Denmark, primo lavoro solista di John Grant, nacque in un momento di grazia, con la collaborazione importante di un bel gruppo texano, i Midlake, nati suonando jazz-rock, ma anche appassionati di progressive (dei texani che amano i Jethro Tull!) e, infine, autori di bei dischi di indie-folk-rock (anche qui solo per comodità).

E le canzoni erano notevolissime, dolorose, ma anche piuttosto ciniche e sarcastiche, con titoli come JC Hates Faggots (Gesù odia i fr**i), o versi tipo “Mi sento come Sigourney Weaver quando deve uccidere quegli alieni“. Avevano a che fare con la difficile accettazione dell’omosessualità, anche in famiglia, nonché con un passato personale all’insegna di troppo alcool e troppe droghe. Tutte con un dono melodico raro, consegnato da una voce bella e importante.

Questo è solo un esempio, per le altre c’è il piacere della scoperta.

Detto che nei dischi successivi di Grant ci sono sempre belle cose (l’ultimo finora è del 2021 e si chiama Boy From Michigan) voglio ribadire che Queen Of Denmark è la sua pietra di paragone.

Ma perché ci è venuto in mente John Grant nell’autunno anomalo del 2022? Il merito è di una miniserie tv della BBC, ora su Netflix, intitolata Inside Man (nulla a che vedere con il film, bellissimo, di Spike Lee del 2006). Della serie, un thriller, non dirò nulla, se non che gli amanti del Doctor Who l’hanno già vista o stanno correndo a farlo, visto che ne è autore Steven Moffat e protagonista David Tennant. Ma la canzone che si sente all’inizio e alla fine di ogni episodio è sufficiente a colpire l’immaginazione. Dopo Red Right Hand di Nick Cave all’inizio di Peaky Blinders non pensavo di trovare altro all’altezza.

E invece…

Un’antica minacciosa canzone folk, cantata dal Golden Gate Quartet, da Odetta, da Marilyn Manson, ma qui ci soffermiamo, senza sminuire le altre, sulla versione di Johnny Cash. Ovviamente ci siamo subito chiesti che cosa fosse, e quando la risposta è stata John Grant è scattato il ricordo, molto recente e molto presente, del suo disco più bello, e insomma tutto questo era solo un pretesto per invitare chi non l’avesse ascoltato a farlo.

Ma facciamo come sui dischi – vi ricordate quando c’erano i dischi? – e chiudiamo con una bonus track, ovvero John Grant alle prese con uno dei suoi modelli, Elton John. Canzone bellissima di Goodbye Yellow Brick Road, e se questo è soft-rock, allora ci metto la firma.

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