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Con “Wabi Sabi” l’esordio di Teiuq

Ricerca, modernità e improvvisazione: sono queste le direttrici lungo le quali si muove l’esperienza musicale di Fabio Di Salvo, metà dei Quiet Ensemble e adesso in versione solista grazie al suo nuovo progetto Teiuq.

Melodie arcaiche insieme a suoni e litanie dimenticate nelle culture popolari orientali, riaffiorano alla luce in un gioco di specchi e di rimandi grazie all’utilizzo dell’elettronica.

Con Wabi Sabi, il suo esordio sulla lunga distanza, Teiuq consegna il viaggio materiale fatto di soste e di incontri alla ricerca spirituale. Un omaggio dichiarato alle filosofie e alle tradizioni dell’estremo oriente ma anche un segnale alla ricerca dei nuovi suoni che da quelle terre provengono, come dimostrano i futuri progetti sui quali l’artista è già al lavoro.

In occasione della sua performance al Gaeta Jazz Festival, nell’ambito della line-up del Soundreef Beach Stage, abbiamo incontrato Teiuq chiedendogli la possibilità di sbirciare nel suo zaino pieno zeppo di strumenti arcaici e di apparati elettronici che gli consentano di dare libero sfogo all’improvvisazione.

Abbiamo avuto l’opportunità di conoscere per i lettori di Just Baked un musicista autentico che si presenta in versione live accompagnato “soltanto” dalla sua personale cassetta degli attrezzi. Naturale inclinazione alla contaminazione, voglia di raccontare storie destreggiandosi tra i linguaggi digitali, capacità di unire passato e presente in una visione sonora proiettata verso il futuro.

Diamo il benvenuto a Teiuq!

Suoni che arrivano dal passato remoto e strumenti elettronici rappresentano la dicotomia del progetto Teiuq.
Il lavoro sembrerebbe prendere le mosse dal concetto del “Wabi Sabi” che è anche il titolo del tuo album, cioè dalla visione estetica delle cose che parte dall’accettazione di tre verità: “nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto”.
È un modo per richiamare il legame mistico tra musica e spiritualità, caratteristico delle culture orientali?
Il “Wabi Sabi” è un concetto che nasce in Oriente, incentrato sul rivalutare l’imperfezione, l’errore, il risultato inatteso.
Questo è uno degli argomenti che indago con Quiet ensemble, progetto condiviso con Bernardo Vercelli, dal 2009, utilizzando linguaggi e approcci diversi.
Con Teiuq ho affrontato questo argomento attraverso la musica, e ciò che mi ha spinto di più a indagarlo è stato il concetto dell’accoglienza della transitorietà delle cose. Mi è piaciuto perché l’approccio era quello di creare un album che avesse un giusto bilanciamento tra l’imperfezione di registrazioni, fatte a volte in strada e a volte in studio, ma comunque spontanee, con una struttura più costruita e studiata nei dettagli.
Il “Wabi Sabi” in sostanza è un elogio all’imperfezione che rende ogni elemento unico e irripetibile.

Ascoltare la musica di Teiuq più che un viaggio assomiglia ad un’esperienza sonora dalle suggestioni ampie ma non frammentate dove trovano spazio cantautorato folk e litanie d’ispirazione religiosa, raccolte durante i tuoi viaggi tra India, Laos, Vietnam, Pakistan, Cina, Cambogia e altri Paesi del Sud Est asiatico.
Non soltanto un lavoro di ricerca e utilizzo di field recording ma anche un metodo applicato al materiale originale raccolto tra gli altri anche dall’etnomusicologo Laurent Jeanneau (aka King Gong), del quale hai utilizzato parte dell’archivio.
Esatto, nel racconto sonoro dell’album ci sono tante registrazioni sonore e strumenti musicali diversi. Durante i miei viaggi in luoghi asiatici ho raccolto tanto materiale di field recording e tante informazioni su popoli di culture lontane… Per poi cercare l’aiuto di professionisti per accedere a un più ampio archivio sonoro, tra cui il più importante è stato quello di Laurent Jeanneau, che mi ha permesso di esplorare tramite delle ottime registrazioni alcune civiltà remote e minoranze etniche.

Qual è stato il passaggio che ti ha portato dall’identità sonora di Quiet ensemble (progetto artistico condiviso con Bernardo Vercelli dal 2009), incentrata sul rapporto tra la casualità e l’ordine in natura come fenomeno da osservare tramite la lente scientifica della tecnologia, fino alle composizioni di Teiuq, dove sembri alla ricerca di equilibrio e osmosi tra sonorità di civiltà ed etnie remote, musiche e canti popolari?
Il passaggio è stato spontaneo tra i due progetti, e c’è stato un nutrimento continuo da entrambe le parti. Sono simili soprattutto per l’approccio artistico nell’esplorare nuovi confini, ascoltando il nuovo e l’inatteso.
Quiet ensemble ha un linguaggio che sento solido e strutturato, in cui ci divertiamo ad esplorare fenomeni naturali con una contaminazione elettronica. Invece con Teiuq la contaminazione avviene tra culture musicali diverse, quella mia personale occidentale con quella orientale di popoli ed etnie remote.

L’ascolto di Teiuq induce quasi naturalmente la domanda sulla fase di studio e ricerca che ti ha consentito di dare nuova vita alle sonorità etniche dimenticate delle culture che hai avuto l’opportunità di visitare. Come sei riuscito a far coesistere nel tuo processo creativo il tempo necessario per realizzare le tracce di un album?
È stato un processo lungo durato diversi anni, e non avendo una scadenza, ho dedicato al progetto tutto il tempo necessario per chiudere un capitolo della mia ricerca. Ci sono state diverse fasi, le più importanti sono state la raccolta e ricerca sonora, seguite dalla fase della composizione musicale.
La prima fase di raccolta è durata diversi anni, nei quali sono riuscito ad entrare in contatto direttamente con queste culture attraverso alcuni viaggi e soprattutto attraverso gli archivi di etnomusicologi che (da anni e per anni) hanno viaggiato e registrato sonorità che altrimenti sarebbero rimaste sconosciute. La fase di composizione è stata la più divertente perché mi ha permesso di mettermi in gioco direttamente e dare voce anche alle mie sonorità e al mio vissuto, che mescolate con quelle etniche, hanno dato vita a un progetto di contaminazione sonora, che sento appena cominciato.

Oltre ai viaggi, agli incontri con le persone e alla conoscenza diretta dei luoghi, quanto ha influenzato il tuo trascorso personale la musica di Teiuq e in che modo le esperienze che hai vissuto si riverberano nel mood di Wabi Sabi?
La mia ricerca è partita proprio da una visione personale. Ho cercato di utilizzare e creare suoni partendo da ciò che più emozionava, sia nella creazione dalla parte composta principalmente da beat sintetici, che dalla parte più sconosciuta etnica. I risultati sono delle composizioni in cui è presente una buona quantità di materiale “preregistrato” da etnomusicologi, ma allo stesso tempo ho reinterpretato ogni singolo suono cercando di inserirlo in un universo personale, in cui ho cercato di far emergere principalmente una mia visione drammaturgica e sonora.

Al Gaeta Jazz Festival il live di Teiuq è in programma domenica 22 luglio al Soundreef Beach Stage sulla spiaggia di Serapo insieme ad artisti quali Tweeedo, Domenico Sanna e Raffaele Costantino. Con quest’ultimo oltre che la piattaforma Soundreef che vi rappresenta, condividete un approccio simile alla composizione che parte dalla ricerca etnomusicale e giunge alla sperimentazione elettronica. Ti trova d’accordo questa analogia?
Sì, sono d’accordo, ognuno di noi l’affronta con linguaggi e stili diversi. Raffaele ha tanti anni di esperienza e un bagaglio culturale musicale enorme e trovando sempre collaborazioni interessanti, che attraverso la sua visione e la sua maturità sonora, raggiungendo dei risultati musicali eccellenti, di indubbio interesse generale. Personalmente cerco di farmi trascinare dalla mia curiosità, concentrarmi sull’emotività delle tracce, cercando di creare storie, con una drammaturgia precisa, ma senza chiavi di lettura, in modo che ognuno è libero di dare una sua interpretazione, cerando quindi di non dare alla ricerca una connotazione prettamente scientifica, ma incentrare il tutto su una visione più personale.

Ho letto in una recente intervista che tra i tuoi progetti c’è anche quello di approfondire le culture musicali partenopee reinterpretandole in modo contemporaneo. Un approccio parallelo anche se per certi versi diverso a quello che hanno adottato i Nu Guinea (anche loro al Gaeta Jazz Festival) nella riscoperta dei suoni synth-funk della scena napoletana degli anni ’70-’80. Raccontaci qual è lo stato dell’arte di questo e degli altri progetti – non soltanto come Teiuq – ai quali stai lavorando.
Si è vero è un’idea che ho in testa da diverso tempo e sto cercando il momento giusto per svilupparla. La possibilità di offrire e mettere a disposizione il mio bagaglio culturale alla mia città, è un’idea che mi piace tanto, cercando quindi una contaminazione, piuttosto che dall’altra parte del mondo, proprio qui, a casa mia. Al momento questo mio istinto di rivolgere maggiore attenzione rispetto al luogo in cui le mie radici si sono formate, è stato in parte soddisfatto avendo preso parte al progetto Liberato, in particolare per la parte estetica di scena. In futuro mi piacerebbe comunque avanzare una ricerca incentrata principalmente sulle sonorità partenopee antiche e a volte sconosciute, cercando quindi di farle rivivere attraverso una nuova visione sonora.

Quali sono i giovani musicisti e producer del sud est asiatico che stanno reinterpretando le sonorità del loro passato con un approccio vicino al tuo che segui? O quali quelli con i quali ti piacerebbe collaborare in futuro o con i quali stai già lavorando?
Questo è un ottimo modo per chiudere l’intervista, proprio con uno sguardo verso il futuro.
Al momento sto mettendo le basi per un prossimo progetto in cui l’attenzione la rivolgerò in particolare verso giovani che abitano quelle zone ricche di storia musicale orientale, e che a modo loro stanno già effettuando questa reinterpretazione, con cui mi piacerebbe intraprendere una strada comune. Essendo ancora il progetto in stato embrionale non anticipo nessun nome, ma spero presto di potervi raccontate come si evolverà.

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