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  • Comunicazione

DONALD TRUMP.
Pensa in grande
e manda tutti al diavolo

Nell’immaginario collettivo, gli Stati Uniti rappresentano un Paese fortemente caratterizzato, sia dal punto di vista cinematografico che letterario. Per questa ragione, le similitudini tra i personaggi pubblici e le figure di fantasia protagoniste di racconti e film sono tanto immediate quanto inevitabili.
Dopo lo sconcerto iniziale, derivante dall’aver appreso che Donald Trump non solo aveva paventato l’idea di scendere in campo come candidato repubblicano per le Presidenziali americane ma la stava anche mettendo in pratica con risultati notevoli, si sono aperti diversi scenari nei pensieri di ogni individuo dotato di un minimo senso critico.

Così, riflettendo su quale potesse essere la conformazione della “base” di Trump, la memoria si è focalizzata sui personaggi di Joe R. Lansdale: il Sud della violenza segregazionista, la povertà, il maschilismo, la forte connotazione sessuale e sessista dei discorsi, il volgare approccio alla condizione femminile. La provincia retrograda e ignorante, squallida e feroce, lontana dall’emancipazione e dalla civiltà. Potrebbe sembrare un controsenso, pensando alla storia personale di Trump: un tycoon che negli anni Novanta aveva scolpito il suo nome (fisicamente, non solo in senso lato) ovunque, dai grattacieli ai casinò, passando per lussuosi appartamenti e arrivando alla Trump Tower, il suo quartier generale affacciato sulla Fifth Avenue.

Una prima, sommaria, lettura farebbe pensare a sostenitori ricchi, bianchi, perfetti rappresentanti dell’Upper Class americana, un gruppo di individui che trarrebbe sicuramente un certo beneficio dall’avere alla Casa Bianca un rappresentante così significativamente vicino al proprio status.
Invece, il maggior numero di sostenitori di Trump ha un grado di istruzione medio-basso e non è un grande frequentatori dei seggi, né si interessa alla vita politica del Paese: prima di New York, è il West Virginia lo Stato che vanta maggiore sostegno al miliardario, ed è anche il più povero degli Stati Uniti.

Come ha fatto “The Donald” a toccare le corde di questa porzione di elettorato? Sicuramente comunicando in modo  molto evocativo i problemi e le questioni da affrontare, e ponendo l’accento sulla rabbia, non sulla paura come fanno i suoi compagni di partito. Anche quando parla di terrorismo, criminalità o crisi economica, non mostra mai il fianco, e tiene alto il livello di indignazione. Fa leva sull’ira spesso repressa di un ceto di bassa istruzione e scarsa disponibilità economica, che non riesce a toccare con mano la consistenza del Sogno Americano. Così lui lo promette, te lo fa immaginare e respirare ancora, con quello slogan “’We’re going to make America great again”, che tanto ricorda il “Nuovo miracolo italiano” di berlusconiana memoria.

Inoltre, le sue idee sono semplici e di immediata comprensione: il problema dell’immigrazione messicana occupa pagine e pagine dei programmi dei suoi avversari politici? Lui lo risolve chiedendo agli stessi messicani (definiti poco prima stupratori e spacciatori) di finanziare la costruzione di un muro lungo il confine. Facile, no? Neppure il richiamo formale da parte del Papa lo scalfisce, Trump è un entertainer spesso buffo e ridicolo ma sempre in grado di catturare l’attenzione del pubblico. Cita Mussolini, offende l’aspetto fisico di Carly Fiorina, ex ceo di HP e sua rivale per le primarie repubblicane, insulta su Twitter Megyn Kelly, nota giornalista televisiva di Fox News, definendola un’oca, sostiene di voler chiudere Internet e imporre un temporaneo divieto di entrata nel Paese per i musulmani.

Domina i media e genera curiosità: sono tutti in attesa della sua prossima gaffe, della mossa successiva ideata per scandalizzare e stupire il pubblico. Parla sempre di sé in prima persona, e i suoi comizi sono sovente incentrati su temi molto caldi per l’opinione pubblica, ad esempio la politica migratoria: in questo modo può tenere alta l’attenzione e toccare quei nervi scoperti che negli ultimi anni sono propri del mondo Occidentale e degli Stati Uniti, in particolare. C’è un punto fondamentale da cui non si può prescindere nell’analizzare la comunicazione di Donald Trump e la sua ascesa al potere: come Berlusconi (a cui spesso è accostato), Trump non è un politico. La sua campagna elettorale è, in realtà, una campagna di marketing. Berlusconi ha utilizzato le sue doti comunicative come punto di forza durante tutto il suo percorso politico, Trump è sotto il costante controllo di una regia finalizzata a persuadere i consumatori (leggi: elettori).

 

Come ha giustamente sottolineato Paul Krugman in un recente articolo pubblicato sul New York Times, probabilmente Trump non è il male peggiore tra i candidati repubblicani, se si considerano le posizioni ancora più estreme e integraliste dei suoi compagni di partito e probabilmente governerebbe gli Stati Uniti meglio di Rubio o Cruz ma il buon senso suggerisce di non metterlo alla prova, perché non solo gli americani ma il mondo intero ne risentirebbe.

Proprio Joe R. Lansdale, che abbiamo ricordato prima, qualche mese fa parlava così del miliardario newyorchese: “Donald Trump? È come Bozo il Clown, ma a differenza del pagliaccio giocherellone più famoso e amato d’America, lui non fa ridere per la simpatia, ma per le sciocchezze che dice e che fa. Sembra uscito da un mio romanzo, uno di quei personaggi cattivi che non si sopportano per la loro arroganza: lo stanno usando per fare notizia, ma a me interessa poco, lo detesto davvero”.

Chissà se questa volta uno tra i motti più famosi di Trump “Pensa in grande e manda tutti al diavolo” (che è anche il titolo di un suo libro) funzionerà: oggi, giorno di votazioni nella cruciale Florida e in Ohio, conosceremo (purtroppo o per fortuna) buona parte della risposta a questo interrogativo.

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