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Stefano Bessoni, il becchino, il poeta e il fanciullo

Agli inizi del XX secolo il ventunenne Tod Browning riposa serenamente sottoterra, mangia caramelle al malto, mentre in superficie ingenui spettatori assistono al miracolo della sua resurrezione per soli venticinque cents. 48 ore dentro una bara a due metri di profondità, fingendo di essere morto per l’altrui diletto. Il giovane e spiantato ragazzo del Kentucky trova nella messa in scena della propria dipartita il suo destino e la sua remunerativa professione: cantastorie del terrore e del soprannaturale, padre di nani, donne gallina, uomini scimmia e vampiri, quelli impomatati e in marsina, con il volto magnetico e lo sguardo ipnotico di Bela Lugosi. Dentro quella bara, mangiando caramelle, Tod è già il più incredibile dei suoi freak.

La morte non bussa, spalanca la porta e sceglie chi portare con se, nell’oltremondo popolato dal bizzarro e dal perturbante, dove non ci sono mostri, di quelli ne è piena la vita, ma creature meravigliose e tormentate, anime perse, tradite dal dolore, dal troppo amore, da troppa vita. La morte può essere una liberazione, delle volte, un’opportunità, lo svelamento di ogni segreto. Altre volte, può indicare la via ed essere, paradossalmente, una rinascita. Naturalmente, non bisogna morire davvero, come Browning nella settimana pasquale, basta solo chiudere gli occhi e trattenere il fiato per un po’.

Chissà come ci è finito un becchino tra un supereroe, un cowboy e un principe con il pennacchio ad una festa per bambini? Chissà che diranno tutti di questo strampalato ragazzino, forse chiameranno allarmati i genitori e poi un assistente sociale o un dottore. Quel bambino non deve essere normale, non fa che ripetere che se potesse adotterebbe un coccodrillo e lo sistemerebbe nella sua vasca da bagno. “Da grande” – sussurra qualcuno – “diventerà un criminale”.

Invece, da grande, Stefano Bessoni, l’aspirante becchino che nella sua wunderkammer colleziona teschi, teste di bambole senza occhi, resti di animali in bocce di formalina e altre mirabilia, è diventato un poeta di immagini, un regista e un illustratore originale e raffinato. Un creatore, non un assassino. Mentre la morte è sempre lì, tra fogli di carta e matite e pupazzi con il cappio al collo e i denti aguzzi.

C’è molto di Tim Burton nei suoi libri e molto delle atmosfere fiabesche e cupe delle storie dei fratelli Grimm, prima delle deriva disneyana, capitalista e schifosamente puritana. I suoi personaggi, innocenti o peccatori, vestiti di malinconia e sogno, incompresi, sono fanciulli liberati dalla “seriosità dell’esistenza”. Nel sui ultimo libro, i “Canti della forca”, che è anche un cortometraggio in stop motion, presentato venerdì a Roma, i personaggi appena accennati dallo scrittore tedesco Christian Morgenstern in una serie di scritti macabri, prendono vita, rigorosamente da morti. Il mondo dal patibolo ha un’altra luce, è uno sguardo privilegiato quello dei Fratelli della Forca, il privilegio si conquista duramente, la cima è alta, la corda stretta, la morte dolorosa. Penzolare sull’esistenza non è affatto roba per “gente stolta”.

Come nasce questa passione per il macabro?

Fin da piccolo mi piaceva vedere tutti quei film dark, dell’orrore. Mi ricordo, che le emittenti private di Roma non facevano che trasmettere a rotazione film come La Mummia, Frankenstein, L’Uomo Lupo, dove si vedevano sempre cimiteri e probabilmente nell’immaginario di un bambino qual ero all’epoca ha fatto scattare questa curiosità. Poi, a 12 anni, mio zio mi portò a vedere Nosferatu di Herzog, fu una visione che mi turbò e colpì moltissimo.

Il tuo stile è molto europeo, forse troppo per l’Italia, è un bene o un male?

È un grosso problema. Sto cercando di capire come trovare degli sbocchi in un momento così critico. Non riesco a fare cose nuove o anche ad essere ascoltato.

Qual è la situazione attuale del genere?

È una situazione di crisi, che non è solo italiana, ma anche europea e mondiale. Anche in Spagna, la new ave horror è molto modaiola e commerciale, per cui non riesci a fare cose più personali.

C’è anche un problema di distribuzione, se pensiamo che il tuo primo lungometraggio “Frammenti di scienze inesatte” è passato sotto silenzio e che il pluripremiato “Krokodyle” è praticamente introvabile?

“Krokodyle” nonostante i premi e i riconoscimenti non ha ad oggi una distribuzione, questo perché non esiste un mercato in grado di incanalare una domanda che comunque c’è ed è forte, perché non passa giorno in cui non riceva mail da persone che mi chiedono dove possono trovare i miei film. Il problema è che appena fai qualcosa di personale che esce fuori dagli schemi, chi dovrebbe non vuole rischiare.

Nei “Canti della forca” i condannati hanno uno sguardo privilegiato sul mondo, come scriveva Morgenstern, i tuoi personaggi cosa vedono dal patibolo?

Il discorso della forca è innanzitutto un discorso metaforico. Morgenstern era un estimatore di Nietzsche, sosteneva che, attraverso il potenziamento delle facoltà intellettive umane, era possibile il raggiungimento di verità superiori. Quindi, il colle del patibolo altro non è che una metafora di un livello alto a cui si arriva attraverso una sorta di passaggio, che richiede un sacrificio e una grossa dedizione. Chi riesce a fare quel passaggio diventa un eletto, un adepto, qualcosa di diverso rispetto alle persone normali, quindi è in grado di decifrare, di vedere e di capire cose che gli altri non sono in grado di vedere. Immaginare un colle del patibolo, in cui c’è la forca, in cui la persona oltretutto è ancora più alta e che per essere arrivata in quel punto deve però passare per il cappio, una cosa che non tutti riescono a fare, ecco quello rappresenta un punto di vista privilegiato, perché consente di vedere e scorgere delle verità che altre persone, vigliacche, pigre, non istruite, non riescono assolutamente a vedere.

Qual è il processo creativo dietro i tuoi personaggi e le tue storie?

Lavoro in maniera molto inconsapevole, a ruota libera, anche nel cinema. La prima idea nasce sempre da uno schizzo su carta, poi da lì magari lo lego a delle frasi, a dei concetti, poi comincio a mettere insieme le cose che sono sul foglio, vedo che ci sono dei personaggi che hanno voglia di parlare l’uno con l’altro, quindi comincio a creargli delle parentele, delle relazioni e poi da lì nascono le storie, nasce tutto. Diciamo che non c’è nulla di premeditato, non è un lavoro fatto a tavolino, tanto è vero che l’unico momento in cui riesco a creare è la mattina quando corro, lasciando andare il corpo. Poi nella giornata tutto quel frullato di elaborazioni finiscono su un foglio, scritto o disegnato.

Come si sposa questa libertà creativa con il fare cinema? Non è più stressante?

Assolutamente sì. “Krokodyle”, ad esempio, è un film completamente libero, che io ho realizzato alla Fellini, lo considero il mio “8 e ½”. Proprio Pupi Avati, con cui ho lavorato per tanti anni, dopo averlo visto, mi ha detto “Bravo Stefanì, hai fatto il tuo 8 e ½”. È un film totalmente libero ed è per questo che non trova una distribuzione. Esce completamente fuori dagli schemi, ma segue proprio questa pulsione creativa. Lì racconto la mia vita di tutti i giorni. Io sono Kaspar, è un mio autoritratto in forma fantastica, sono io a casa mia, nel mio studio.

Nella tua filmografia e, non solo, c’è molto di Peter Greenaway.

Assolutamente. Il mio punto di riferimento massimo è Greenaway, anche per lo sconfinamento tra varie forme di espressione, multimedialità. Ho iniziato a fare cinema proprio grazie ai film di Greenaway. Il mio primo imperativo è una frase che lui dice sempre “bisogna fidarsi dell’opera e non dell’autore”.

Ti dirò, rimpiango quel modo di fare cinema, quello che faceva Greenaway, ma anche Fellini o, ad un altro livello, Citti, e certo cinema di Pasolini. Oggi non ti permettono di fare quei film, di essere quel tipo di autore. Secondo me uno dei film più belli fatti in Italia è “Uccellacci, uccellini”, lì erano quattro amici che prendono una macchina da presa, se ne vanno per le campagna romane, con un canovaccio di sceneggiatura e inventano sulla base della loro cultura, delle loro pulsioni creative. Tutto questo oggi non esiste più, tutto è misurato in euro o in dollari. Ecco, mi piacerebbe fare quel tipo di cinema, che non richiede nemmeno grandi budget, solo permetteteci di distribuirlo.

Ma come diceva Greenaway, è la storia che ha ucciso il cinema, la sceneggiatura è diventata la gabbia che ha prima imprigionato il cinema e poi lo ha ucciso.

Come definiresti il tuo “macabro”?

Tengo molto alla dimensione poetica di quello che faccio, non voglio mai sconfinare nell’horror, non mi piace lo splatter, non mi appartiene ed è quello che hanno tentato di farmi diventare con “Imago mortis”. La sceneggiatura è stata snaturata, il film è stato abbastanza martoriato e alla fine non è né carne né pesce. All’epoca mi hanno definito l’erede di Dario Argento, di Mario Bava, ma io vengo da Fellini, da Greenaway, dal cinema fantastico di Wim Wenders. È quello il mio cinema, che per fortuna sono riuscito a rigettare nell’illustrazione, lì ho trovato un terreno più libero, più tranquillo, più incontaminato se vogliamo, che mi ha permesso di dire “signori, ci sono ancora”. Altrimenti sarei stato uno dei tanti autori dimenticati.

Quelli che sognano non diventeranno mai grandi e questa, lo scopriamo solo da adulti, è un’incredibile benedizione.

 

Chiara Ribaldo | Bake Agency

 

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